Albeggiava,
ormai.
Un
incerto chiarore aumentava impercettibilmente di intensità. Ed iniziava a
divorare la tenebra di una nottata tanto limpida quanto rigida. Lamelle di
luce, guizzando come lucciole, si facevano strada attraverso le fessure delle
persiane in legno. La stanza da letto era ancora immersa nel buio.
In
giardino gli alberi di ulivo iniziavano a farsi stormire da ospiti pennuti e
irrispettosi. Difatti, puntuali come se ogni mattina dovessero timbrare il
cartellino, quattro o cinque gazze avevano già iniziato a rincorrersi di ramo
in ramo emettendo un gracchiare stridulo e presupponente. Si sa che più
fastidiosi di quegli uccellacci ci sono solo i gabbiani con il loro gracidare
isterico; ma, fortunatamente, la costa era abbastanza lontana da non consentire
loro di spingersi troppo sovente sulla casa. Accadeva solo talvolta; quando la
tramontana che soffiava dai Balcani li spintonava, per l’appunto, verso le
campagne baresi.
Quella
mattina di fine ottobre, invece, di vento non ne spirava nemmeno un alito.
Tuttavia l’aria era diventata ormai piuttosto pungente; era, dunque, giunto il
tempo di ripristinare la caldaia del riscaldamento.
Man
mano che il buio retrocedeva, incalzato dalle lame di luce, la visione della
stanza da letto della ragazza si faceva sempre più nitida. Così che
l’inguardabile caotico disordine che vi regnava poté manifestarsi sempre più
sfacciatamente.
Vestimenti
di ogni genere erano disseminati dovunque.
Maglioncini,
slip e canotte erano sparsi sul pavimento come fette di prosciutto, scaglie di
formaggio e pomodorini su una pizza capricciosa. Un informe cumulo composto di
calzini, pantaloni, magliette e camicie tentava di riprodurre la silhouette
della poltrona sulla quale era stratificato da giorni in attesa di quella
ritardataria cesta da bucato che, prima o poi, li avrebbe schiodati da lì ed
accompagnati al cestello della lavatrice.
Un
reggiseno color nocciola era planato chissà perché, come e quando sul monitor
del personal computer adagiato sulla scrittoio. Sul quale lo spazio non ancora
occupato da biancheria intima appariva comunque ricoperto da fogli da stampa,
post-it, penne, tappi irrimediabilmente separati dalle loro bic, puntine da
disegno, evidenziatori ormai svaporati, fermagli per capelli ed elastici di
ogni colore. Per non parlare di tubetti di burro cacao, salviettine umidificate
e qualche assorbente intimo, quanto meno non ancora utilizzato. I cassetti di
quella scrivania ormai si rifiutavano anche di farsi aprire, pur di non
rivelare al mondo la natura e la quantità di paccottiglia che vi era stipata da
anni.
Nel frattempo il sole si sollevava sempre più
sull’orizzonte; e la sua luce si faceva strada attraverso la finestra
socchiusa.
Ormai la mattiniera battaglia delle gazze
aveva designato una temporanea vincitrice. Che si andò ad appollaiare sulla
cima dell’ulivo più vicino alla casa, da dove iniziò a gracchiare verso
chiunque gli volasse o gli camminasse nei pressi. Fossero farfalle o gatti,
gracidava loro dietro con tonalità isterica. Sembrava una verace comare di Bari
vecchia. Una di quelle che, qualunque condizione metereologica ricorra, si
peritano di lavare più volte al giorno con puntigliosità e olio di gomito il
basolato in pietra che lastrica l’ingresso della loro abitazione, rigorosamente
posta a livello stradale. Per poi mettersi ad urlare e sacramentare, brandendo
la scopa a mo’ di scimitarra, quando un estraneo lo insozzi nuovamente
calpestandolo per distrazione o per dispetto.
La parete di fronte alla scrivania era
completamente occupata da un armadio “a ponte” color crema. Al centro della cui
rientranza era posizionato il letto, sormontato da una lunga mensola, dalla
quale occhieggiavano decine di pupazzetti di peluche,.
Sul letto una massa cupoliforme di coltri
lasciava dedurre la presenza di un essere vivente al suo interno. Non
foss’altro perché l’apice di quel montagnozzo tessile appariva sollevarsi
ritmicamente ad ogni atto di respiro di colei che vi albergava. Tuttavia, non
un centimetro quadrato di cute usciva da sotto quel piumone. La ragazza ne era
completamente sepolta, godendosene tutto il confortante tepore.
Non si era ancora svegliata, nonostante
quelle rompipalle delle gazze ce la avessero messa davvero tutta nell’impresa
di scaraventare giù dal letto l’intero quartiere. Si era abituata così tanto a
quel mattiniero appuntamento con il loro trambusto, che ormai non le sentiva
nemmeno più.
Ad annunciare implacabilmente che era l’ora
di alzarsi ci pensò, invece, la sveglia del telefonino, con quel suo trillo
vintage da centralino di altri tempi. Effettivamente non era più molto trendy
utilizzare come suoneria effetti sonori e motivetti musicali. Si era tornati
all’antico, a quello stesso suono che scaturiva da quegli enormi telefoni
casalinghi, di colore rigorosamente nero, che bazzicavano nelle case ormai di
un paio di generazioni addietro. Quelli dotati del disco combinatore, in cui
bisognava infilare il dito in corrispondenza del numero e poi ruotarlo sino ad
incontrare un fermo metallico a goccia. Quindi, per selezionare un'altra cifra,
si doveva rifare la medesima operazione; e così, via via, si arrivava a
comporre completamente il numero della persona che si voleva chiamare. Per
fortuna erano numeri brevi e senza prefisso; che, mancando la possibilità di
ripeterlo automaticamente, in caso di linea occupata solo per poterlo
ricomporre andavano via parecchie decine di minuti. Un’eternità, rispetto al
frenetico incalzare dei tempi attuali. Talvolta quegli apparecchi venivano
appesi al muro come quadri. E nelle famiglie numerose venivano spesso corredati
di un lucchettino che bloccava la rotazione del disco così da impedirne un uso
disinvolto e dispendioso. La loro suoneria aveva un unico tipo di allarme
sonoro: faceva ring ring praticamente
in tutto il mondo. Non era possibile confonderlo con altri suoni, casalinghi o
esterni che fossero. Tranne che per quello, assai simile, della sveglia da
comodino con caricamento a corda, con il quale veniva sovente travisato.
Come frequentemente accade alle tendenze di
costume più incarnate nella memoria collettiva, anche quel motivetto metallico
era tornato prepotentemente di moda. Al punto che ne erano, ormai, dotati anche
gli smartphone più avanzati. La gente ricominciava a selezionarlo ed a
utilizzarlo. Vuoi per annunciare le chiamate in arrivo, che come allarme della
sveglia.
Ma già il fatto che il materializzarsi nel
silenzio di quel petulante ma artificiale ring
ring elettronico corrispondeva alla inesorabile imposizione di doversi
alzare dal letto, gli rendeva quasi quasi preferibile il nevrotico ma vivente cra cra degli uccellacci.
Mentre, dunque, la sveglia continuava a
trillare imperterrita, dal mucchio di coltri venne fuori una mano. Lentamente e
con circospezione. Fu quindi seguita da una porzione di polso. Quelle due
propaggini animate sembravano la testa ed il collo di una testuggine che
emergeva dal carapace ed iniziava a guardarsi lentamente intorno.
Tutte e cinque le dita della mano scivolarono
a tentoni per tutta la lunghezza del materasso, sino a trovare lo smartphone da
cui proveniva l’insopportabile suono. Quindi, iniziarono a pigiare a caso su
tutti i tasti che riuscivano ad individuare con il tatto, sinché non fu
azzeccato quello giusto. Così che l’allarme poté momentaneamente cessare.
Quello era, per la giovane, il momento di
avviare una titanica impresa: sollevare le coperte. Azione che richiese lo
stesso tipo sforzo normalmente occorrente ad un pesista olimpico per strappare
bilanciere e pesi durante una gara.
Ma perché non era concesso poter dormire
ancora un po’, magari fino a mezzogiorno ? O anche oltre… Perché bisogna
necessariamente alzarsi ? Certo, perché bisogna andare al lavoro. E se il motivo è quello, perché oggi non è
domenica? O Natale? Uffa.
Il primo segmento corporeo che emerse
faticosamente dalle coltri scostate fu il volto, che era orientato proprio in
direzione della finestra. Per questo la ragazza mantenne le palpebre
rigorosamente chiuse. Ciononostante, queste furono ugualmente trapassate dalla
lama di luce, che andò ad infilzarsi dolorosamente nelle pupille, scendendo a
pungere dolorosamente la retina.
Quel molesto flash luminoso ebbe l’effetto di
dissuadere la giovane dall’aprire di botto gli occhi. Per cui iniziò a farlo
con estrema lentezza, piano piano, così che ad ogni millimetro di sollevamento
delle palpebre corrispondesse una frazione di secondo di adattamento alla luce.
Sinché non li spalancò del tutto, così guardando in faccia la giornata che
andava ad iniziare.
Il momento peggiore del risveglio consiste
proprio nel superare traumatico passaggio dal buio alla luce. E’ un disagio ancestrale,
che in ogni individuo comincia a delinearsi dal momento in cui si ritrova a
percorrere quel benedetto canale del parto. Dopo nove mesi di vita passata a
mollo in quella che altro non è che una piscina climatizzata, avvolti da un
buio in fin dei conti rassicurante piuttosto che terrificante, ritrovarsi a
percorre un tunnel stretto e scomodo solo perché spinto violentemente dalle
contrazioni espulsive di chi sino a quel momento ti aveva tenuto al sicuro
equivale ad tradimento insopportabile. Non ne parliamo, poi, quando si qualcuno
decide che la via d’uscita non debba essere quella naturale, bensì attraverso
una provvisoria, aperta lì per lì per l’occorrenza. E così ci si ritrova due
mani che ti afferrano per le mandibole e ti sollevano verso l’alto.
Ma cosa mai possiamo avere combinato di male
lì dentro per essere condannati a subire tutto quello ? Per essere sbattuti in
esilio in un mondo che da quel momento in poi non ci darà più tregua ?
La ragazza, comunque, non si pose affatto
questi interrogativi. Né si ritrovò a rievocare i primi minuti della propria
vita terrena; che, peraltro, nel suo caso particolare erano stati molto
difficili e convulsi.
La sua mente era, in realtà, assolutamente
sgombra da qualsivoglia pensiero o riflessione. Il fatto che i suoi occhi si
fossero appena aperti, non coincideva necessariamente anche con il risveglio
della zona pensante del suo cervello. Anzi, per lei era decisamente più
prioritario che. ancor prima della mente, si riavviassero tutti i muscoli di
collo, braccia e gambe.
Di conseguenza era assolutamente necessario
stiracchiarsi, quanto prima. Inarcò a ponte sul letto la schiena prima ed il
collo poi. E così restò qualche secondo. Poi tornò in posizione orizzontale e
tese al massimo le gambe facendo assumere loro la forma di una linea
rigorosamente rettilinea. Talvolta, in questa fase, i polpacci le andavano in
contrattura provocandole dei crampi così dolorosi da farla urlare. Quella
mattina fortunatamente non andò così.
Dopo di che, esattamente come aveva fatto per
gli arti inferiori tese anche entrambe le braccia, stendendole rettilineamente
al di sopra delle spalle fino a toccare con le dita la spalliera. Quel
movimento fu accompagnato da una specie di sordo grugnito a bocca chiusa, che
per lei aveva un indiscusso valore simbolico. Voleva dire concentrazione,
volontà, intento. Come dicesse: “Sono sveglia. Sono qui. Sono pronta a lottare
anche oggi. Aspettatemi gente. Arrivo.”
Altro che “ohm” tibetano, che prelude alla
serenità ed alla meditazione. Quel grugnito era come la litania di
intimidazione che gli All Blacks neozelandesi di rugby urlano nel corso della loro
danza maori. Era come l’urlo di guerra innalzato al cielo dai ribelli scozzesi
di Braveheart prima di lanciarsi a capofitto nel combattimento corpo a corpo.
Era un segnale destinato al mondo intero: “Io ci sono. E ve ne accorgerete”.
Anche il rito mattutino dello stiracchiamento
e dell’urlo di guerra venne, dunque, portato a termine. Un altro po’ e ci si
sarebbe persino potuti alzare dal letto. Ma non proprio subito. Con calma.
Ancora qualche istante di sano poltrire nel letto. Altri cinque minuti: quelli
mancanti alla replica del ring ring
della sveglia. Alla seconda chiamata ci si alza.
Il tempo di tirarsi fuori dall’abbraccio
confortevole delle coperte, di sollevarsi sui gomiti e di mettersi seduta sul
letto ed il secondo richiamo del telefonino giunse implacabile. A quel punto, la
giovane lo spense definitivamente disattivando l’opzione deputata a far si che
suonasse ancora dopo altri cinque minuti. L’avrebbe ripristinata in serata,
come al solito.
D’accordo, ora in piedi. Fuori il piede
destro; ecco, giù sul pavimento. Accidenti, quant’era gelato. Ora anche il
sinistro; giù, fatto. E, colpita da quest’ultima zampata, la bottiglia di acqua
minerale appoggiata per terra si rovesciò e rotolò sotto il letto.
Fortunatamente era in plastica; e fortunatamente era ben tappata. Per cui né si
frantumò, né versò il suo contenuto.
Se mai fosse residuato un pizzico di torpore
a contrastare il risveglio completo, bastò il contatto delle piante dei piedi
su quel pavimento gelido a dissiparlo completamente. Le babbucce imbottite
erano fortunatamente a breve distanza. La ragazza le infilò in tutta fretta e
corse nel corridoio a pigiare sul pulsante del termostato a muro, perché si
accendessero i termosifoni. Ma che temperatura ambientale c’era ? Sedici gradi,
nemmeno pochi. Ma un certo fresco si faceva sentire. Per cui posizionò il
valore del termostato sui venti gradi, così che le stanze potessero iniziare a
riscaldarsi più rapidamente possibile.
C’era un ulteriore pulsante da dover andare a
pigiare: quello che accendeva e metteva in pressione la macchina del caffè
espresso. Lo fece.
Quindi tirò fuori dalla sua confezione una
capsula di polvere di caffè della varietà extra-forte. Dopo di che, riempì
quasi sino all’orlo una tazza con latte freddo. Per poi appoggiarla sotto
l’ugello della macchinetta del caffè e spingere la levetta che avrebbe fatto
scendere il fragrante liquido nero a miscelarsi con la candida bevanda. Il
caffelatte era pronto; necessitava solo di una trentina di secondi nel forno a
microonde per riscaldarsi alla temperatura giusta. Quando lo tirò fuori fumante
e fragrante, la ragazza lo dolcificò con un paio di cucchiaini di zucchero di
canna. Ed iniziò a sorseggiarlo lentamente. Ora, sì che la giornata poteva
cominciare.
L’orario incalzava, certo. Ma una cosa
proprio non avrebbe mai fatto in fretta: gustare, centellinandola, la calda
bevanda mattutina. Quell’atto quotidiano non sanciva soltanto il momento del
risveglio, non serviva solo ad indicare alla coscienza il varco del confine tra
torpore ed attività. Rappresentava, piuttosto, qualcosa di ben più profondo ed
importante. Era una vivida miscellanea di ricordi. Era l’appuntamento
quotidiano con la memoria, dato che così era la colazione mattutina della sua
infanzia. E così sarebbe continuata ad essere per lei, anche in seguito. Sempre.
Promesso.
L’ultimo sorso era anche il più gustoso, perché
era quello che raccoglieva i cristalli di zucchero non completamente sciolti e
depositati sul fondo della tazza. Lo gustò in modo particolare; e sottolineò il
suo gradimento passandosi la lingua da lato a lato lungo il labbro superiore
per non dissiparne nemmeno una goccia. Andò quindi a depositare la tazza nel
lavello, la colmò d’acqua.
E si diresse verso il bagno.
Il momento della seduta igienica, chissà poi
perché, coincideva inevitabilmente con la pianificazione mentale degli impegni
della giornata.
Tanto per iniziare, al lavoro quel giorno ci
sarebbe stata una novità. Non insignificante, ma nemmeno troppo impegnativa.
Avrebbe dovuto partecipare ad un corso di formazione, in cui le sarebbero state
impartite nozioni in tema di sicurezza sul lavoro. Era obbligatorio, non poteva
proprio scansarsela. Sperava solo che non fosse così tedioso come gliene
avevano parlato le colleghe.
Peraltro, quell’impegno non avrebbe prodotto
sconti sulle sue ordinarie mansioni. Anche volendo, non si sarebbe potuto. Era
addetta alla assistenza di persone anziane, le cui necessità vitali non
sarebbero certamente state ridotte dal fatto che avrebbe dovuto passare un paio
di ore in aula. Anzi, l’impegno della
giornata si prospettava particolarmente gravoso, proprio perché avrebbe dovuto
concentrare tutto il da farsi in una quantità più ristretta di ore. Ma ce
l’avrebbe fatta sicuramente.
Non considerava quel lavoro un peso, un
fardello necessario e indispensabile per la propria autonomia sociale ed
economica. Nulla di tutto questo. E che proprio gli piaceva da morire farlo.
Gli piaceva avere la sensazione di potere essere utile agli altri. Lei era
fatta così: aveva il senso della solidarietà nel sangue. La pagavano per farlo
? Tanto meglio. Ma lei l’avrebbe fatto anche da volontaria.
Certo non tutto era (come si dice) “rose e
fiori”, come del resto accade sempre nella vita. Qualcosa che non le andava a
genio c’era eccome. Alcuni colleghi, gli orari, il ritmo convulso, le levatacce
mattutine. Ma tutto era assolutamente superabile.
A parte il perdere strada facendo qualche
assistito per motivi di età o di malattia. A quello faceva proprio fatica ad
abituarsi. Per questo evitava accuratamente di affezionarsi a coloro che
chiamava “ospiti”; e mai assistiti. Perché ci soffriva troppo, quando ritrovava
il nome di uno di essi stampato su un violaceo manifesto affisso sul cancello
d’entrata ad annunciarne la dipartita. Ma anche a quello ci stava facendo,
ormai, pian piano l’abitudine.
Terminato il turno di servizio, sarebbe
andata alla Associazione dove svolgeva attività di volontariato. Lì avrebbe
trascorso l’intero pomeriggio e buona parte della serata. Innanzitutto c’era
una riunione piuttosto importante, in cui avrebbero dovuto programmare gran parte
delle iniziative da porre in atto nei mesi successivi. Gite, corsi di teatro,
progetti didattici, manifestazioni di reperimento fondi: ce n’era, eccome, di
carne al fuoco su cui lavorare.
Ma come avrebbe mai potuto sottrarsi a
quell’impegno ? Quel posto era stato davvero fondamentale nella sua formazione.
Lo aveva frequentato per anni. Ad esso erano legati i più importanti ricordi
della sua vita. Chissà dove sarebbe andata, cosa avrebbe fatto se non ci fosse
stato. Ed era giunto il momento di fare per gli altri quello che era stato
fatto per lei. Non si trattava soltanto un dovere etico: era anche una preziosa
opportunità di rifondere il Fato di quanto le aveva comunque donato. Questo
faceva per quella Associazione.
E, poi, gli era sufficiente pensare alle
facce dei bambini che ora lo frequentavano come aveva fatto lei in passato perché
dissipasse ogni dubbio ed ogni remora sulla effettiva utilità di quell’impegno.
A come si sarebbero illuminate quando avrebbe comunicato loro quel che stavano
preparando,.
Certo che si prospettava una giornata davvero bella
piena. Ma quale ormai non lo era ? Lavoro, Associazione, amiche… Avrebbe fatto
in tempo a vederle per prendere un aperitivo prima di tornare a casa ?
Era questa la sua vita. E per non farsi mancare davvero
nulla, c’erano anche le serate passate a consumare la sua più grande passione:
il ballo caraibico. La sua vita era intensa. E le piaceva da matti.
Il molesto pensiero delle mille cose da fare svanì
d’incanto non appena si infilò sotto il getto fumante della doccia.
Meravigliosa. Era un abbraccio, non una abluzione. A cui si abbandonò ad occhi
chiusi e con totale abbandono. Nella sua mente si dissolse per incanto
qualsivoglia pensiero, che non fosse quello di lasciare che ogni centimetro
quadrato del suo corpo fosse massaggiato da quella cascata di acqua bollente.
Si decise a chiudere il rubinetto solo quando l’ultima goccia di schiuma
scomparve nel foro di scarico. Non prima. Avrebbe passato ore lì sotto,
giornate intere. Ma ora era arrivato il momento di darsi una mossa. L’orario
continuava ad incalzare.
Anche l’accappatoio, che era stato già
opportunamente adagiato su un calorifero a spalliera, le rimandò un calore
confortante e benefico. Quanto la faceva sentire bene quella calda doccia
mattutina. Quanto era benefica per lei. I suoi muscoli del dorso ne venivano rilassati
come nemmeno una seduta massoterapica sarebbe stata in grado di realizzare. E quelli
di braccia e gambe incrementato il loro tono, la loro forza. Li sentiva
elastici, pronti a scattare. Si, ora era davvero pronta ad affrontare la
giornata. Nulla l’avrebbe fermata.
In piedi, davanti allo specchio dal quale
lentamente iniziava a dissiparsi il velo di vapore acqueo che l’aveva
appannato, si guardo fissa. E si lanciò uno sguardo di approvazione e
complicità; ammiccante come quello che ci scambia tra membri di una squadra
prima di cominciare una azione vincente. La sua migliore e più affidabile amica
del cuore e compagna di vita era proprio quella ragazza che si intravedeva là
nello specchio. Era lei stessa. Era soddisfatta di se stessa. Tanto.
Decise, dunque, di farsi ancor più bella di
quanto non facesse ogni giorno.
Per quanto riguardava il suo aspetto era di
un narcisismo esasperato, fondamentalista. Non a caso una serie smisurata di
prodotti di bellezza era ordinatamente allineata sul lavabo sotto lo specchio.
Così che per lei fosse sempre agevole sceglierne il più adatto e verificarne
subito l’effetto sulla pelle. Nonché abbinarlo adeguatamente all’abbigliamento
che avrebbe indossato. In questo era assolutamente rigorosa, perfezionista. Una
irriducibile talebana del make-up. Del che ella stessa si rendeva perfettamente
conto, compiacendosene oltre misura.
Sul piano del lavabo c’era tutto quanto potesse essere
impiegato al fine di migliorare l’umana bellezza. Creme, emulsioni, lozioni,
gel, olii, fondotinta, ombretti, mascara, rossetti, lucidalabbra, matite per
contorno labbra, smalti per unghie. Di tutto e di più.
Iniziò l’opera ravviandosi i capelli, che prese a stirare
con la consueta metodica lentezza accendendo ad intermittenza il phon così
vicino al capo che quasi arrivava a poggiarne direttamente la estremità
soffiante su quei fili di seta. Stendeva ciocca per ciocca, piano piano,
verificando attentamente allo specchio l’efficacia della spazzolata, che
assecondava con sinuosi movimenti circolari del collo.
Dopo di che guardò il campionario di cosmetici che gli si
presentava davanti. Escogitò, dunque, quale sarebbe stato il tema fondamentale
del maquillage del giorno. Quindi, con gesti decisi, misurati, eleganti ed
aggraziati come quelli di una geisha iniziò ad afferrare in sequenza boccette,
tubetti e pennelli. Ne utilizzò il contenuto con raffinata maestria. Anche
quella mattina, dunque, quel preciso momento della giornata assunse i caratteri
di una laica cerimonia rituale (da geisha, per l’appunto) piuttosto che quelli
di una ordinaria seduta di bellezza.
Quando il suo volto fu adeguatamente abbellito con colori
dai toni sobri ma decisi, tutto il suo narcisismo fu reindirizzato verso la
scelta dell’abbigliamento. Aprì entrambe le ante dell’armadio stagionale e ne
osservò il contenuto, prefigurando gli effetti che i capi che stava per
scegliere avrebbero determinato sulla sua figura nell’insieme.
Quindi, iniziò a sfilare dalle grucce camicette,
maglioncini, pantaloni e giubbini e
quant’altro. Anche in questo caso con estrema risolutezza e competenza.
Tutto quello che indossò fu il prodotto di una accuratissima
valutazione. Accostamenti cromatici, tipologia dei tessuti, coordinamento con
gli accessori, esaltazione delle forme. Dalla cima dei capelli alla punta delle
scarpe tutto doveva essere armonico e perfettamente aderente a quanto aveva in
mente. Solo allora sarebbe potuta
uscire. Non prima. A costo di fare ritardo.
Anche questo aspetto fu ampiamente soddisfatto. Ora si,
che andava bene.
Non gli restò che controllare che in borsa non mancasse
nulla. Dal portafoglio agli occhiali, dall’abbonamento dell’autobus agli
assorbenti, dal mini beauty-case alle salviettine profumate, dal telefonino al
pacchetto di caramelle balsamiche.
Era dunque arrivato il momento di andare. E pure in
fretta; che l’orario incalzava, sempre più inesorabilmente.
Prima d’uscire di casa, si concesse un ultimo
istante di indugio davanti allo specchio. Dove, come faceva ogni mattina, si
soffermò a rimirarsi, scoprendosi davvero carina.
Gli piacque da morire il modo in cui si era
vestita e truccata quel giorno. Quindi si voltò di tre quarti, soffermandosi ad
osservare come le cascasse il maglione sui pantaloni.
Si trovò fresca, sbarazzina. Si sorrise e si
fece una smorfia soffiando nelle guanciotte come se stesse gonfiando un
palloncino. Quindi, continuando a guardare il proprio volto nello specchio,
tirò fuori la punta della lingua e diresse verso se stessa una boccaccia..
Lo sberleffo con la linguaccia era ormai un
rito scaramantico di ogni mattina. Non era cosa di iniziare la giornata senza
averlo fatto, prima di uscire di casa. Non farlo portava male.
Sgonfiate le guance restò ancora per un
attimo a fissare il proprio volto. Questa volta con espressione seria. E
finalmente decise di ammettere di volersi bene. Si sentiva straordinariamente
soddisfatta di se stessa, soprattutto per avere compiuto progressi
inimmaginabili negli ultimi anni. Che nessuno le avrebbe mai preconizzato nel
corso degli anni; nemmeno chi le voleva veramente bene. Progressi che le erano
costati fatica, sudore, umiliazioni, lacrime. Ma ora tutto filava per il verso
giusto. Ogni giorno che passava quegli sforzi erano più che ripagati.
Era proprio orgogliosa di se stessa.
Assolutamente.
Indugiò ancora una volta a guardare la sua
immagine nello specchio. Ammiccò compiaciuta a sé stessa, strizzando quei suoi
occhioni dal taglio inusuale. Così vezzosamente orientaleggianti.
Essere nata con la sindrome di Down non le era mai pesato così poco.
FINE

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