03 dicembre, 2025

E QUELLE MATTINE, QUANDO...

 



    Albeggiava, ormai.

Un incerto chiarore aumentava impercettibilmente di intensità. Ed iniziava a divorare la tenebra di una nottata tanto limpida quanto rigida. Lamelle di luce, guizzando come lucciole, si facevano strada attraverso le fessure delle persiane in legno. La stanza da letto era ancora immersa nel buio.

In giardino gli alberi di ulivo iniziavano a farsi stormire da ospiti pennuti e irrispettosi. Difatti, puntuali come se ogni mattina dovessero timbrare il cartellino, quattro o cinque gazze avevano già iniziato a rincorrersi di ramo in ramo emettendo un gracchiare stridulo e presupponente. Si sa che più fastidiosi di quegli uccellacci ci sono solo i gabbiani con il loro gracidare isterico; ma, fortunatamente, la costa era abbastanza lontana da non consentire loro di spingersi troppo sovente sulla casa. Accadeva solo talvolta; quando la tramontana che soffiava dai Balcani li spintonava, per l’appunto, verso le campagne baresi.

Quella mattina di fine ottobre, invece, di vento non ne spirava nemmeno un alito. Tuttavia l’aria era diventata ormai piuttosto pungente; era, dunque, giunto il tempo di ripristinare la caldaia del riscaldamento.

Man mano che il buio retrocedeva, incalzato dalle lame di luce, la visione della stanza da letto della ragazza si faceva sempre più nitida. Così che l’inguardabile caotico disordine che vi regnava poté manifestarsi sempre più sfacciatamente.

Vestimenti di ogni genere erano disseminati dovunque.

Maglioncini, slip e canotte erano sparsi sul pavimento come fette di prosciutto, scaglie di formaggio e pomodorini su una pizza capricciosa. Un informe cumulo composto di calzini, pantaloni, magliette e camicie tentava di riprodurre la silhouette della poltrona sulla quale era stratificato da giorni in attesa di quella ritardataria cesta da bucato che, prima o poi, li avrebbe schiodati da lì ed accompagnati al cestello della lavatrice.

Un reggiseno color nocciola era planato chissà perché, come e quando sul monitor del personal computer adagiato sulla scrittoio. Sul quale lo spazio non ancora occupato da biancheria intima appariva comunque ricoperto da fogli da stampa, post-it, penne, tappi irrimediabilmente separati dalle loro bic, puntine da disegno, evidenziatori ormai svaporati, fermagli per capelli ed elastici di ogni colore. Per non parlare di tubetti di burro cacao, salviettine umidificate e qualche assorbente intimo, quanto meno non ancora utilizzato. I cassetti di quella scrivania ormai si rifiutavano anche di farsi aprire, pur di non rivelare al mondo la natura e la quantità di paccottiglia che vi era stipata da anni.

Nel frattempo il sole si sollevava sempre più sull’orizzonte; e la sua luce si faceva strada attraverso la finestra socchiusa.

Ormai la mattiniera battaglia delle gazze aveva designato una temporanea vincitrice. Che si andò ad appollaiare sulla cima dell’ulivo più vicino alla casa, da dove iniziò a gracchiare verso chiunque gli volasse o gli camminasse nei pressi. Fossero farfalle o gatti, gracidava loro dietro con tonalità isterica. Sembrava una verace comare di Bari vecchia. Una di quelle che, qualunque condizione metereologica ricorra, si peritano di lavare più volte al giorno con puntigliosità e olio di gomito il basolato in pietra che lastrica l’ingresso della loro abitazione, rigorosamente posta a livello stradale. Per poi mettersi ad urlare e sacramentare, brandendo la scopa a mo’ di scimitarra, quando un estraneo lo insozzi nuovamente calpestandolo per distrazione o per dispetto.

La parete di fronte alla scrivania era completamente occupata da un armadio “a ponte” color crema. Al centro della cui rientranza era posizionato il letto, sormontato da una lunga mensola, dalla quale occhieggiavano decine di pupazzetti di peluche,.

Sul letto una massa cupoliforme di coltri lasciava dedurre la presenza di un essere vivente al suo interno. Non foss’altro perché l’apice di quel montagnozzo tessile appariva sollevarsi ritmicamente ad ogni atto di respiro di colei che vi albergava. Tuttavia, non un centimetro quadrato di cute usciva da sotto quel piumone. La ragazza ne era completamente sepolta, godendosene tutto il confortante tepore. 

Non si era ancora svegliata, nonostante quelle rompipalle delle gazze ce la avessero messa davvero tutta nell’impresa di scaraventare giù dal letto l’intero quartiere. Si era abituata così tanto a quel mattiniero appuntamento con il loro trambusto, che ormai non le sentiva nemmeno più.

Ad annunciare implacabilmente che era l’ora di alzarsi ci pensò, invece, la sveglia del telefonino, con quel suo trillo vintage da centralino di altri tempi. Effettivamente non era più molto trendy utilizzare come suoneria effetti sonori e motivetti musicali. Si era tornati all’antico, a quello stesso suono che scaturiva da quegli enormi telefoni casalinghi, di colore rigorosamente nero, che bazzicavano nelle case ormai di un paio di generazioni addietro. Quelli dotati del disco combinatore, in cui bisognava infilare il dito in corrispondenza del numero e poi ruotarlo sino ad incontrare un fermo metallico a goccia. Quindi, per selezionare un'altra cifra, si doveva rifare la medesima operazione; e così, via via, si arrivava a comporre completamente il numero della persona che si voleva chiamare. Per fortuna erano numeri brevi e senza prefisso; che, mancando la possibilità di ripeterlo automaticamente, in caso di linea occupata solo per poterlo ricomporre andavano via parecchie decine di minuti. Un’eternità, rispetto al frenetico incalzare dei tempi attuali. Talvolta quegli apparecchi venivano appesi al muro come quadri. E nelle famiglie numerose venivano spesso corredati di un lucchettino che bloccava la rotazione del disco così da impedirne un uso disinvolto e dispendioso. La loro suoneria aveva un unico tipo di allarme sonoro: faceva ring ring praticamente in tutto il mondo. Non era possibile confonderlo con altri suoni, casalinghi o esterni che fossero. Tranne che per quello, assai simile, della sveglia da comodino con caricamento a corda, con il quale veniva sovente travisato.

Come frequentemente accade alle tendenze di costume più incarnate nella memoria collettiva, anche quel motivetto metallico era tornato prepotentemente di moda. Al punto che ne erano, ormai, dotati anche gli smartphone più avanzati. La gente ricominciava a selezionarlo ed a utilizzarlo. Vuoi per annunciare le chiamate in arrivo, che come allarme della sveglia.

Ma già il fatto che il materializzarsi nel silenzio di quel petulante ma artificiale ring ring elettronico corrispondeva alla inesorabile imposizione di doversi alzare dal letto, gli rendeva quasi quasi preferibile il nevrotico ma vivente cra cra degli uccellacci.

Mentre, dunque, la sveglia continuava a trillare imperterrita, dal mucchio di coltri venne fuori una mano. Lentamente e con circospezione. Fu quindi seguita da una porzione di polso. Quelle due propaggini animate sembravano la testa ed il collo di una testuggine che emergeva dal carapace ed iniziava a guardarsi lentamente intorno.

Tutte e cinque le dita della mano scivolarono a tentoni per tutta la lunghezza del materasso, sino a trovare lo smartphone da cui proveniva l’insopportabile suono. Quindi, iniziarono a pigiare a caso su tutti i tasti che riuscivano ad individuare con il tatto, sinché non fu azzeccato quello giusto. Così che l’allarme poté momentaneamente cessare.

Quello era, per la giovane, il momento di avviare una titanica impresa: sollevare le coperte. Azione che richiese lo stesso tipo sforzo normalmente occorrente ad un pesista olimpico per strappare bilanciere e pesi durante una gara.

Ma perché non era concesso poter dormire ancora un po’, magari fino a mezzogiorno ? O anche oltre… Perché bisogna necessariamente alzarsi ? Certo, perché bisogna andare al lavoro.  E se il motivo è quello, perché oggi non è domenica? O Natale? Uffa.

Il primo segmento corporeo che emerse faticosamente dalle coltri scostate fu il volto, che era orientato proprio in direzione della finestra. Per questo la ragazza mantenne le palpebre rigorosamente chiuse. Ciononostante, queste furono ugualmente trapassate dalla lama di luce, che andò ad infilzarsi dolorosamente nelle pupille, scendendo a pungere dolorosamente la retina.

Quel molesto flash luminoso ebbe l’effetto di dissuadere la giovane dall’aprire di botto gli occhi. Per cui iniziò a farlo con estrema lentezza, piano piano, così che ad ogni millimetro di sollevamento delle palpebre corrispondesse una frazione di secondo di adattamento alla luce. Sinché non li spalancò del tutto, così guardando in faccia la giornata che andava ad iniziare.

Il momento peggiore del risveglio consiste proprio nel superare traumatico passaggio dal buio alla luce. E’ un disagio ancestrale, che in ogni individuo comincia a delinearsi dal momento in cui si ritrova a percorrere quel benedetto canale del parto. Dopo nove mesi di vita passata a mollo in quella che altro non è che una piscina climatizzata, avvolti da un buio in fin dei conti rassicurante piuttosto che terrificante, ritrovarsi a percorre un tunnel stretto e scomodo solo perché spinto violentemente dalle contrazioni espulsive di chi sino a quel momento ti aveva tenuto al sicuro equivale ad tradimento insopportabile. Non ne parliamo, poi, quando si qualcuno decide che la via d’uscita non debba essere quella naturale, bensì attraverso una provvisoria, aperta lì per lì per l’occorrenza. E così ci si ritrova due mani che ti afferrano per le mandibole e ti sollevano verso l’alto.

Ma cosa mai possiamo avere combinato di male lì dentro per essere condannati a subire tutto quello ? Per essere sbattuti in esilio in un mondo che da quel momento in poi non ci darà più tregua ?

La ragazza, comunque, non si pose affatto questi interrogativi. Né si ritrovò a rievocare i primi minuti della propria vita terrena; che, peraltro, nel suo caso particolare erano stati molto difficili e convulsi.

La sua mente era, in realtà, assolutamente sgombra da qualsivoglia pensiero o riflessione. Il fatto che i suoi occhi si fossero appena aperti, non coincideva necessariamente anche con il risveglio della zona pensante del suo cervello. Anzi, per lei era decisamente più prioritario che. ancor prima della mente, si riavviassero tutti i muscoli di collo, braccia e gambe.

Di conseguenza era assolutamente necessario stiracchiarsi, quanto prima. Inarcò a ponte sul letto la schiena prima ed il collo poi. E così restò qualche secondo. Poi tornò in posizione orizzontale e tese al massimo le gambe facendo assumere loro la forma di una linea rigorosamente rettilinea. Talvolta, in questa fase, i polpacci le andavano in contrattura provocandole dei crampi così dolorosi da farla urlare. Quella mattina fortunatamente non andò così.

Dopo di che, esattamente come aveva fatto per gli arti inferiori tese anche entrambe le braccia, stendendole rettilineamente al di sopra delle spalle fino a toccare con le dita la spalliera. Quel movimento fu accompagnato da una specie di sordo grugnito a bocca chiusa, che per lei aveva un indiscusso valore simbolico. Voleva dire concentrazione, volontà, intento. Come dicesse: “Sono sveglia. Sono qui. Sono pronta a lottare anche oggi. Aspettatemi gente. Arrivo.” 

Altro che “ohm” tibetano, che prelude alla serenità ed alla meditazione. Quel grugnito era come la litania di intimidazione che gli All Blacks neozelandesi di rugby urlano nel corso della loro danza maori. Era come l’urlo di guerra innalzato al cielo dai ribelli scozzesi di Braveheart prima di lanciarsi a capofitto nel combattimento corpo a corpo. Era un segnale destinato al mondo intero: “Io ci sono. E ve ne accorgerete”.

Anche il rito mattutino dello stiracchiamento e dell’urlo di guerra venne, dunque, portato a termine. Un altro po’ e ci si sarebbe persino potuti alzare dal letto. Ma non proprio subito. Con calma. Ancora qualche istante di sano poltrire nel letto. Altri cinque minuti: quelli mancanti alla replica del ring ring della sveglia. Alla seconda chiamata ci si alza.

Il tempo di tirarsi fuori dall’abbraccio confortevole delle coperte, di sollevarsi sui gomiti e di mettersi seduta sul letto ed il secondo richiamo del telefonino giunse implacabile. A quel punto, la giovane lo spense definitivamente disattivando l’opzione deputata a far si che suonasse ancora dopo altri cinque minuti. L’avrebbe ripristinata in serata, come al solito.

D’accordo, ora in piedi. Fuori il piede destro; ecco, giù sul pavimento. Accidenti, quant’era gelato. Ora anche il sinistro; giù, fatto. E, colpita da quest’ultima zampata, la bottiglia di acqua minerale appoggiata per terra si rovesciò e rotolò sotto il letto. Fortunatamente era in plastica; e fortunatamente era ben tappata. Per cui né si frantumò, né versò il suo contenuto.

Se mai fosse residuato un pizzico di torpore a contrastare il risveglio completo, bastò il contatto delle piante dei piedi su quel pavimento gelido a dissiparlo completamente. Le babbucce imbottite erano fortunatamente a breve distanza. La ragazza le infilò in tutta fretta e corse nel corridoio a pigiare sul pulsante del termostato a muro, perché si accendessero i termosifoni. Ma che temperatura ambientale c’era ? Sedici gradi, nemmeno pochi. Ma un certo fresco si faceva sentire. Per cui posizionò il valore del termostato sui venti gradi, così che le stanze potessero iniziare a riscaldarsi più rapidamente possibile.

C’era un ulteriore pulsante da dover andare a pigiare: quello che accendeva e metteva in pressione la macchina del caffè espresso. Lo fece.

Quindi tirò fuori dalla sua confezione una capsula di polvere di caffè della varietà extra-forte. Dopo di che, riempì quasi sino all’orlo una tazza con latte freddo. Per poi appoggiarla sotto l’ugello della macchinetta del caffè e spingere la levetta che avrebbe fatto scendere il fragrante liquido nero a miscelarsi con la candida bevanda. Il caffelatte era pronto; necessitava solo di una trentina di secondi nel forno a microonde per riscaldarsi alla temperatura giusta. Quando lo tirò fuori fumante e fragrante, la ragazza lo dolcificò con un paio di cucchiaini di zucchero di canna. Ed iniziò a sorseggiarlo lentamente. Ora, sì che la giornata poteva cominciare.

L’orario incalzava, certo. Ma una cosa proprio non avrebbe mai fatto in fretta: gustare, centellinandola, la calda bevanda mattutina. Quell’atto quotidiano non sanciva soltanto il momento del risveglio, non serviva solo ad indicare alla coscienza il varco del confine tra torpore ed attività. Rappresentava, piuttosto, qualcosa di ben più profondo ed importante. Era una vivida miscellanea di ricordi. Era l’appuntamento quotidiano con la memoria, dato che così era la colazione mattutina della sua infanzia. E così sarebbe continuata ad essere per lei, anche in seguito. Sempre. Promesso.

L’ultimo sorso era anche il più gustoso, perché era quello che raccoglieva i cristalli di zucchero non completamente sciolti e depositati sul fondo della tazza. Lo gustò in modo particolare; e sottolineò il suo gradimento passandosi la lingua da lato a lato lungo il labbro superiore per non dissiparne nemmeno una goccia. Andò quindi a depositare la tazza nel lavello, la colmò d’acqua.

E si diresse verso il bagno.

Il momento della seduta igienica, chissà poi perché, coincideva inevitabilmente con la pianificazione mentale degli impegni della giornata.

Tanto per iniziare, al lavoro quel giorno ci sarebbe stata una novità. Non insignificante, ma nemmeno troppo impegnativa. Avrebbe dovuto partecipare ad un corso di formazione, in cui le sarebbero state impartite nozioni in tema di sicurezza sul lavoro. Era obbligatorio, non poteva proprio scansarsela. Sperava solo che non fosse così tedioso come gliene avevano parlato le colleghe.

Peraltro, quell’impegno non avrebbe prodotto sconti sulle sue ordinarie mansioni. Anche volendo, non si sarebbe potuto. Era addetta alla assistenza di persone anziane, le cui necessità vitali non sarebbero certamente state ridotte dal fatto che avrebbe dovuto passare un paio di ore in aula.  Anzi, l’impegno della giornata si prospettava particolarmente gravoso, proprio perché avrebbe dovuto concentrare tutto il da farsi in una quantità più ristretta di ore. Ma ce l’avrebbe fatta sicuramente.

Non considerava quel lavoro un peso, un fardello necessario e indispensabile per la propria autonomia sociale ed economica. Nulla di tutto questo. E che proprio gli piaceva da morire farlo. Gli piaceva avere la sensazione di potere essere utile agli altri. Lei era fatta così: aveva il senso della solidarietà nel sangue. La pagavano per farlo ? Tanto meglio. Ma lei l’avrebbe fatto anche da volontaria.

Certo non tutto era (come si dice) “rose e fiori”, come del resto accade sempre nella vita. Qualcosa che non le andava a genio c’era eccome. Alcuni colleghi, gli orari, il ritmo convulso, le levatacce mattutine. Ma tutto era assolutamente superabile.

A parte il perdere strada facendo qualche assistito per motivi di età o di malattia. A quello faceva proprio fatica ad abituarsi. Per questo evitava accuratamente di affezionarsi a coloro che chiamava “ospiti”; e mai assistiti. Perché ci soffriva troppo, quando ritrovava il nome di uno di essi stampato su un violaceo manifesto affisso sul cancello d’entrata ad annunciarne la dipartita. Ma anche a quello ci stava facendo, ormai, pian piano l’abitudine.

Terminato il turno di servizio, sarebbe andata alla Associazione dove svolgeva attività di volontariato. Lì avrebbe trascorso l’intero pomeriggio e buona parte della serata. Innanzitutto c’era una riunione piuttosto importante, in cui avrebbero dovuto programmare gran parte delle iniziative da porre in atto nei mesi successivi. Gite, corsi di teatro, progetti didattici, manifestazioni di reperimento fondi: ce n’era, eccome, di carne al fuoco su cui lavorare.

Ma come avrebbe mai potuto sottrarsi a quell’impegno ? Quel posto era stato davvero fondamentale nella sua formazione. Lo aveva frequentato per anni. Ad esso erano legati i più importanti ricordi della sua vita. Chissà dove sarebbe andata, cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato. Ed era giunto il momento di fare per gli altri quello che era stato fatto per lei. Non si trattava soltanto un dovere etico: era anche una preziosa opportunità di rifondere il Fato di quanto le aveva comunque donato. Questo faceva per quella Associazione.

E, poi, gli era sufficiente pensare alle facce dei bambini che ora lo frequentavano come aveva fatto lei in passato perché dissipasse ogni dubbio ed ogni remora sulla effettiva utilità di quell’impegno. A come si sarebbero illuminate quando avrebbe comunicato loro quel che stavano preparando,.

Certo che si prospettava una giornata davvero bella piena. Ma quale ormai non lo era ? Lavoro, Associazione, amiche… Avrebbe fatto in tempo a vederle per prendere un aperitivo prima di tornare a casa ?

Era questa la sua vita. E per non farsi mancare davvero nulla, c’erano anche le serate passate a consumare la sua più grande passione: il ballo caraibico. La sua vita era intensa. E le piaceva da matti.

Il molesto pensiero delle mille cose da fare svanì d’incanto non appena si infilò sotto il getto fumante della doccia. Meravigliosa. Era un abbraccio, non una abluzione. A cui si abbandonò ad occhi chiusi e con totale abbandono. Nella sua mente si dissolse per incanto qualsivoglia pensiero, che non fosse quello di lasciare che ogni centimetro quadrato del suo corpo fosse massaggiato da quella cascata di acqua bollente. Si decise a chiudere il rubinetto solo quando l’ultima goccia di schiuma scomparve nel foro di scarico. Non prima. Avrebbe passato ore lì sotto, giornate intere. Ma ora era arrivato il momento di darsi una mossa. L’orario continuava ad incalzare.

Anche l’accappatoio, che era stato già opportunamente adagiato su un calorifero a spalliera, le rimandò un calore confortante e benefico. Quanto la faceva sentire bene quella calda doccia mattutina. Quanto era benefica per lei. I suoi muscoli del dorso ne venivano rilassati come nemmeno una seduta massoterapica sarebbe stata in grado di realizzare. E quelli di braccia e gambe incrementato il loro tono, la loro forza. Li sentiva elastici, pronti a scattare. Si, ora era davvero pronta ad affrontare la giornata. Nulla l’avrebbe fermata.

     In piedi, davanti allo specchio dal quale lentamente iniziava a dissiparsi il velo di vapore acqueo che l’aveva appannato, si guardo fissa. E si lanciò uno sguardo di approvazione e complicità; ammiccante come quello che ci scambia tra membri di una squadra prima di cominciare una azione vincente. La sua migliore e più affidabile amica del cuore e compagna di vita era proprio quella ragazza che si intravedeva là nello specchio. Era lei stessa. Era soddisfatta di se stessa. Tanto.

     Decise, dunque, di farsi ancor più bella di quanto non facesse ogni giorno.

     Per quanto riguardava il suo aspetto era di un narcisismo esasperato, fondamentalista. Non a caso una serie smisurata di prodotti di bellezza era ordinatamente allineata sul lavabo sotto lo specchio. Così che per lei fosse sempre agevole sceglierne il più adatto e verificarne subito l’effetto sulla pelle. Nonché abbinarlo adeguatamente all’abbigliamento che avrebbe indossato. In questo era assolutamente rigorosa, perfezionista. Una irriducibile talebana del make-up. Del che ella stessa si rendeva perfettamente conto, compiacendosene oltre misura.

Sul piano del lavabo c’era tutto quanto potesse essere impiegato al fine di migliorare l’umana bellezza. Creme, emulsioni, lozioni, gel, olii, fondotinta, ombretti, mascara, rossetti, lucidalabbra, matite per contorno labbra, smalti per unghie. Di tutto e di più.

Iniziò l’opera ravviandosi i capelli, che prese a stirare con la consueta metodica lentezza accendendo ad intermittenza il phon così vicino al capo che quasi arrivava a poggiarne direttamente la estremità soffiante su quei fili di seta. Stendeva ciocca per ciocca, piano piano, verificando attentamente allo specchio l’efficacia della spazzolata, che assecondava con sinuosi movimenti circolari del collo.  

Dopo di che guardò il campionario di cosmetici che gli si presentava davanti. Escogitò, dunque, quale sarebbe stato il tema fondamentale del maquillage del giorno. Quindi, con gesti decisi, misurati, eleganti ed aggraziati come quelli di una geisha iniziò ad afferrare in sequenza boccette, tubetti e pennelli. Ne utilizzò il contenuto con raffinata maestria. Anche quella mattina, dunque, quel preciso momento della giornata assunse i caratteri di una laica cerimonia rituale (da geisha, per l’appunto) piuttosto che quelli di una ordinaria seduta di bellezza.

Quando il suo volto fu adeguatamente abbellito con colori dai toni sobri ma decisi, tutto il suo narcisismo fu reindirizzato verso la scelta dell’abbigliamento. Aprì entrambe le ante dell’armadio stagionale e ne osservò il contenuto, prefigurando gli effetti che i capi che stava per scegliere avrebbero determinato sulla sua figura nell’insieme.

Quindi, iniziò a sfilare dalle grucce camicette, maglioncini,  pantaloni e giubbini e quant’altro. Anche in questo caso con estrema risolutezza e competenza.

Tutto quello che indossò fu il prodotto di una accuratissima valutazione. Accostamenti cromatici, tipologia dei tessuti, coordinamento con gli accessori, esaltazione delle forme. Dalla cima dei capelli alla punta delle scarpe tutto doveva essere armonico e perfettamente aderente a quanto aveva in mente. Solo allora  sarebbe potuta uscire. Non prima. A costo di fare ritardo.

Anche questo aspetto fu ampiamente soddisfatto. Ora si, che andava bene.

Non gli restò che controllare che in borsa non mancasse nulla. Dal portafoglio agli occhiali, dall’abbonamento dell’autobus agli assorbenti, dal mini beauty-case alle salviettine profumate, dal telefonino al pacchetto di caramelle balsamiche.

Era dunque arrivato il momento di andare. E pure in fretta; che l’orario incalzava, sempre più inesorabilmente.

Prima d’uscire di casa, si concesse un ultimo istante di indugio davanti allo specchio. Dove, come faceva ogni mattina, si soffermò a rimirarsi, scoprendosi davvero carina.

Gli piacque da morire il modo in cui si era vestita e truccata quel giorno. Quindi si voltò di tre quarti, soffermandosi ad osservare come le cascasse il maglione sui pantaloni.

Si trovò fresca, sbarazzina. Si sorrise e si fece una smorfia soffiando nelle guanciotte come se stesse gonfiando un palloncino. Quindi, continuando a guardare il proprio volto nello specchio, tirò fuori la punta della lingua e diresse verso se stessa una boccaccia..

Lo sberleffo con la linguaccia era ormai un rito scaramantico di ogni mattina. Non era cosa di iniziare la giornata senza averlo fatto, prima di uscire di casa. Non farlo portava male.

Sgonfiate le guance restò ancora per un attimo a fissare il proprio volto. Questa volta con espressione seria. E finalmente decise di ammettere di volersi bene. Si sentiva straordinariamente soddisfatta di se stessa, soprattutto per avere compiuto progressi inimmaginabili negli ultimi anni. Che nessuno le avrebbe mai preconizzato nel corso degli anni; nemmeno chi le voleva veramente bene. Progressi che le erano costati fatica, sudore, umiliazioni, lacrime. Ma ora tutto filava per il verso giusto. Ogni giorno che passava quegli sforzi erano più che ripagati.

Era proprio orgogliosa di se stessa. Assolutamente.

Indugiò ancora una volta a guardare la sua immagine nello specchio. Ammiccò compiaciuta a sé stessa, strizzando quei suoi occhioni dal taglio inusuale. Così vezzosamente orientaleggianti.

Essere nata con la sindrome di Down non le era mai pesato così poco.


FINE


----------

Questo racconto è stato pubblicato con il titolo "AWASHIMA - Il racconto dell'Aria" nel mio libro "STRAORDINARIE POLARITA' LUNARI"* (SECOP edizioni, 2017). 

*Scheda del libro al link:
https://cosimolerario.blogspot.com/p/straordinarie-polarita-lunari.html


Nessun commento:

Posta un commento