“Capitano, la cerca il capoufficio.”
Il
latore dell’ambasciata non entrò nella mia stanza, limitandosi a restare sulla
soglia.
Lo
guardai torvo, senza nemmeno voltare il viso nella sua direzione. Risposi con
un indisponente grugnito, che prima di raggiungere le sue orecchie fece in
tempo a materializzarsi nell’aria in un rassegnato “Va bene”.
Cosa
diavolo poteva volere da me “Platinette” a quell’ora? Nel dopopranzo era aduso
sonnecchiare per una oretta, stravaccandosi sulla poltrona reclinabile da
ufficiale superiore. A memoria d’uomo non era mai accaduto che convocasse
chicchessia nel corso della controra estiva.
Quel
frivolo pseudonimo con cui lo avevamo ribattezzato era il nome d’arte di una
drag-queen che andava per la maggiore sulle reti televisive nazionali. Il nostro capo ne aveva in comune la oscena pinguedine
ed una certa somiglianza nel volto; ma non la argentea acconciatura cotonata. Né,
tantomeno, la stessa intelligenza e cultura.
Non
mi andava di sopportare la vista di quell’ippopotamo sbracato, con la sua
maglietta verde muschio regolarmente chiazzata in corrispondenza delle ascelle di
denso sudore putrido.
Decisi,
pertanto, di telefonargli. “Eccomi.”
“Devi
correre dal Chief of Staff. C’è qualche problema nel testo del rapporto che hai
presentato stamattina.” Quindi riattaccò bruscamente, con il consueto garbo che
doveva avere appreso nelle gabbie dei più scalcagnati circhi balcanici.
Un
problema nel testo? Di cosa mai poteva trattarsi?
Prima
di salire ai piani decisionali del Comando andai a rivedere la mia copia dell’elaborato.
Era
perfetto: proprio non riuscivo a rintracciare nel suo interno alcun errore o
una qualsivoglia omissione. Nulla di nulla: né di formale, né di sostanziale.
Mi
infilai la giacca dell’uniforme e mi avviai.
“Sono
stato convocato dal C.o.S.” annunciai all’anziano Ufficiale addetto che ne
presidiava l’anticamera. Attendeva il mio arrivo; per cui annuì, con
un’espressione talmente disgustata e riprovevole da mettermi a disagio.
Cosa
mai avevo potuto combinare con quel mio rapporto?
In
fin dei conti avevo semplicemente illustrato i criteri con cui effettuare le
modalità di programmazione dei prelievi di urine atti a verificare che i
militari non assumessero sostanze stupefacenti. Null’altro.
L’accensione
di una lucina verde sulla porta sancì il mio ingresso nell’ufficio del sommo
dirigente.
Restando
seduto sulla sua poltrona imbottita, mi sorrise. Non con intenzione empatica,
ma con compatimento e sufficienza. Come, in altri tempi, facevano le maestrine
zitelle alle prese con il piccolo scavezzacollo che ne aveva escogitata
un’altra delle sue.
“Cosa
mi ha combinato, Capitano. Guardi qui; guardi cosa ha scritto.”
Mi
passò il foglio su cui era stampato il mio rapporto. Era intonso, tranne in un
punto in cui un cerchio vergato in inchiostro verde (essendo quello rosso
riservato esclusivamente ai Generali comandanti) circondava una parola
avviluppandosi nevroticamente in spire concentriche.
Quell’unico
lemma così atrocemente posto in evidenza era il termine “randomizzato”.
“Ha
visto?” riprese il mio censore “Ma come le è venuto in mente di utilizzare
questa parola?”
Rilessi
quanto avevo scritto, per trovare una qualsivoglia discrasia tanto grave da
avere innescato quella reazione così riprovevole.
Non
riuscii a trovare nulla di saliente: tutto era coerente con il contesto
illustrato. Compresa quel termine in quel momento tanto stigmatizzato.
“Allora,
mi fornisce una spiegazione…?”
Risposi
con la massima calma di cui fossi capace. “Ho solo voluto rappresentare che,
effettuando dei controlli casuali, scongiureremmo l’eventualità che chi ha
qualcosa da nascondere possa alterare i test sostituendo le proprie urine con
quelle di un commilitone. Tutto qui.”
Sbottò.
“Ma chi se ne frega dello scopo. Si rende conto che non si possono utilizzare
parole eccessivamente sofisticate? Poteva scrivere, che so, “prelievi a caso” o
“casuali” o “senza preavviso”. Invece lei mi va ad usare una parola che nessuno
è in grado di comprendere”.
“Ma
per l’appunto” ribattetti “non sarebbe il caso di provare ad elevare il livello
del nostro vocabolario?”
“Certo
che lei non si lascia mai sfuggire occasione per ribadire di avere svolto studi
umanistici. Ce la sbatte continuamente in faccia la sua Cultura. Si ricordi che
mentre lei perdeva tempo a leggere libri, noi ci addestravamo salendo sulle
funi a dieci metri d’altezza e ci lanciavamo di sotto sui teloni ad occhi
aperti.”
“E
proprio quello è il nocciolo del problema” pensai attonito senza profferire
parola.
“Ora
vada. E sostituisca quel termine con uno che possiamo capire tutti.”
Avevo
quasi varcato l’uscita, quando mi urlò dietro “E un’ultima cosa: se
randomizzato è una “mala” parola, è randomizzato lei e sua sorella. Ha capito?”
Mi
allontanai velocemente. Non riuscivo a trattenermi.
Fu
solo quando raggiunsi il corridoio del piano sottostante, che mi concessi il
piacere di esplodere in una amara, fragorosa risata.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2021
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