14 marzo, 2020

PAUSA CAFFE’ CON TORTURA.

 

Valona (ALBANIA), dicembre 1991.

 Il baretto dell’Ospedale di Valona era poco più che una baracca eretta al centro del cortile interno del nosocomio.

Se non ricordo male non c’erano scritte o segnali o cartelli che ne indicassero la posizione. Ciononostante era facilmente individuabile; innanzitutto dalla rilevante quantità di persone che soggiornava davanti al suo ingresso. Tutti uomini, la maggior parte dei quali stazionava lì già dalle prime ore del mattino, assolutamente nullafacente. Credo non fossero nemmeno dipendenti dell’ospedale o parenti di ricoverati; ma abitanti dei dintorni che utilizzavano quel posto come punto di ritrovo sociale.

Altra forma di localizzazione era inoltre il profumo che aleggiava tutt’intorno la piccola costruzione. Una mistura dolciastra composta da aroma di caffè turco miscelato agli effluvi volatili di “rakia” (la tremenda acquavite balcanica) e al tanfo prodotto dalle pestilenziali sigarette senza filtro macedoni che tanto piaceva fumare agli albanesi.

Per entrare nell’esercizio bisognava, dunque, letteralmente fendere una barriera di corpi indolenti e rilassati. Che tuttavia all’arrivo del “soldato italiano” si apriva spontaneamente come il Mar Rosso davanti a Mosè.

Mi ci recavo un paio di volte nel corso della mattinata di lavoro. Più spesso trascinato dai colleghi locali che amavano particolarmente quei momenti di cordiale socializzazione.

Nei reparti ospedalieri mancava un po’ di tutto; anzi proprio tutto. Scarseggiavano farmaci, suture, garze, cerotti, strumenti chirurgici, lastre radiografiche… tutto insomma. Ma giammai potevano mancare secchi strapieni di caffè macinato finissimo, che ognuno preparava nel proprio personale “cezve”, un piccolo bricco in metallo a forma di tazzina con un manico lungo una decina di centimetri. Questo si riempiva di acqua, che si scaldava poggiandolo su una fiamma, il più delle volte ottenuta dando fuoco ad una pallotta di cotone idrofilo imbevuto di alcool per medicazione. Quando l'acqua bolliva, si toglieva dal fuoco e vi si mescolava un cucchiaino di polvere di caffè.  Semplicissimo e veloce.

Anche a me regalarono un cezve”, in latta verniciata di nero, che custodisco ancora gelosamente.

Scendere a consumare qualcosa al baretto era, dunque, più che altro la celebrazione di un rito di amicizia. Nulla di diverso di quanto accade da noi.

Quindi, anche nel sud dell’Albania post marxista di inizio anni 90 la frase “Prendiamo un caffè assieme” stava a significare “Ti voglio bene, ti rispetto e voglio condividere questo piacere con te”.

Per questo ci andavo volentieri con i colleghi locali. Nonostante…

Nonostante ogni volta si ripetesse inevitabilmente quello che, dopo già non molti giorni, diventò addirittura insopportabile.

È necessaria una doverosa premessa.

Dall’altra parte dell’Adriatico l’attività clandestina più in voga (dagli anni 70 in poi) era quelle di sintonizzarsi sui canali radiotelevisivi italiani.

Le tre reti RAI, ovviamente. Ma poi anche quelle Mediaset e, data la vicinanza, con le coste pugliesi con la barese Telenorba.

Ovviamente erano i programmi televisivi più graditi erano quelli di intrattenimento leggero; ma soprattutto quelli in cui si faceva un uso smodato di musica leggera italiana.

E’ tutto chiaro ? Perché questa è la premessa.

Ogni mattina, dunque, mi toccava scendere con i colleghi al bar.

Travalicato l’argine compatto costituito dalla massa degli avventori abituali di cui sopra, si superava la soglia e ci si ritrovava in un locale scarno, con suppellettili ridotte all’essenziale, appena ingentilito da una nuance di colore turchese spalmato sulle pareti.

E accadeva. Inevitabilmente. Inopinatamente.

Ogni mattina. Ogni volta che entravamo lì dentro.

Il solerte barista, in qualunque faccenda fosse impegnato in quel momento, mollava tutto. Lasciava perdere bicchieri, cucchiaini, bicchierini, bottiglie. Perché nulla era più impellente ed importante di quanto doveva eseguire, ne andava del suo onore personale. E di quello nazionale.

All’ospite italiano dovevano essere conferiti gli onori dovuti. Non poteva entrare lì dentro e consumare una tazza di caffè turco come una qualunque cliente. Era speciale. E doveva essere trattato con riguardi degni del più accurato protocollo diplomatico.

Certo non c’erano guardie armate alla porta che scattassero sull’attenti e presentassero le armi. Certo non era disponibile un tappeto rosso vermiglio che ne tracciasse il tragitto.

Ma almeno la musica, per rendergli gli onori dovuti, quella sì. Doveva esserci.

È per questo motivo il prode banconista, giusto il tempo di asciugarsi un attimo le mani sul canovaccio grigiastro che gli penzolava indolente dalla cintura, si voltava e raggiungeva la mensola su cui era posizionato un vetusto modello di radio con lettore di musicassette incorporato.

Apriva un cassettino, tirava fuori un oggettino di plastica: una specie di scatoletta di forma rettangolare con due fori rotondi aperti sul lato lungo. Era una musicassetta. Se mai ricordate di cosa sto parlando.

La afferrava con due dita, la scuoteva debolmente, quindi la batteva con tocco deciso sul palmo dell’altra mano. Manovra che serviva per mettere in tensione il nastro magnetico che scorreva al suo interno.

Apriva lo sportellino sul lato della radio e ce la infilava.

Quindi si voltava verso di me sorridendo.

Così faceva ogni mattina, anzi no: ogni qualvolta entravo in quello strabenedetto locale. Ci fossi ricapitato dopo solo dieci minuti, avrebbe rifatto tutto nella stessa identica sequenza.

Dopo avermi sorriso, con gesto epico schiacciava il polpastrello sul tasto “play”.

E la musica partiva, invadendo l’aria.

La coltre di fumo stagnante prodotta dalle dolciastre sigarette senza filtro macedoni sembrava scostarsi rispettosamente, incalzata com’era dall’arrivo delle note musicali man mano che prorompevano dal  micro-altoparlante che si apriva sul lato dell’apparecchio.

E il baretto si riempiva della melodia che più di tutte, secondo il barista, poteva rappresentare la più autorevole forma di italianità e quindi onorare chi in quel momento la rappresentava. Io, per l’appunto.

Era l’ "Inno degli Italiani" di Goffredo Mameli ? Veramente, no.

Il verdiano “Va pensiero” ? Nemmeno.

Nell’aria si levava imperiosa e struggente la voce di Toto Cutugno con il suo singolo “L’Italiano”. A tutto volume.

E quando la canzone terminava, il barista riavvolgeva il nastro e… play… lo faceva ripartire. Continuamente, sinché non uscivo dal locale. Riavvolgi e suona. Riavvolgi e ascolta. 

Toto Cutugno. Di continuo.

La seduta di tortura quotidiana iniziava così. Prima ancora di prendere il caffè.


FINE

© LERARIO Cosimo, 2020

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