Valona (ALBANIA), dicembre 1991.
Se non ricordo male non c’erano scritte o segnali o
cartelli che ne indicassero la posizione. Ciononostante era facilmente individuabile;
innanzitutto dalla rilevante quantità di persone che soggiornava davanti al suo
ingresso. Tutti uomini, la maggior parte dei quali stazionava lì già dalle
prime ore del mattino, assolutamente nullafacente. Credo non fossero nemmeno
dipendenti dell’ospedale o parenti di ricoverati; ma abitanti dei dintorni che
utilizzavano quel posto come punto di ritrovo sociale.
Altra forma di localizzazione era inoltre il profumo
che aleggiava tutt’intorno la piccola costruzione. Una mistura dolciastra
composta da aroma di caffè turco miscelato agli effluvi volatili di “rakia”
(la tremenda acquavite balcanica) e al tanfo prodotto dalle pestilenziali
sigarette senza filtro macedoni che tanto piaceva fumare agli albanesi.
Per entrare nell’esercizio bisognava, dunque,
letteralmente fendere una barriera di corpi indolenti e rilassati. Che tuttavia
all’arrivo del “soldato italiano” si apriva spontaneamente come il Mar Rosso
davanti a Mosè.
Mi ci recavo un paio di volte nel
corso della mattinata di lavoro. Più spesso trascinato dai colleghi locali che
amavano particolarmente quei momenti di cordiale socializzazione.
Nei reparti ospedalieri mancava un
po’ di tutto; anzi proprio tutto. Scarseggiavano farmaci, suture, garze,
cerotti, strumenti chirurgici, lastre radiografiche… tutto insomma. Ma giammai
potevano mancare secchi strapieni di caffè macinato finissimo, che ognuno
preparava nel proprio personale “cezve”, un piccolo bricco in metallo a forma
di tazzina con un manico lungo una decina di centimetri. Questo si riempiva di
acqua, che si scaldava poggiandolo su una fiamma, il più delle volte ottenuta
dando fuoco ad una pallotta di cotone idrofilo imbevuto di alcool per
medicazione. Quando l'acqua bolliva, si toglieva dal fuoco e vi si mescolava un
cucchiaino di polvere di caffè. Semplicissimo e veloce.
Anche a me regalarono un “cezve”,
in latta verniciata di nero, che custodisco ancora gelosamente.
Scendere a consumare qualcosa al
baretto era, dunque, più che altro la celebrazione di un rito di amicizia.
Nulla di diverso di quanto accade da noi.
Quindi, anche nel sud dell’Albania
post marxista di inizio anni 90 la frase “Prendiamo un caffè assieme” stava a
significare “Ti voglio bene, ti rispetto e voglio condividere questo piacere
con te”.
Per questo ci andavo volentieri con i
colleghi locali. Nonostante…
Nonostante ogni volta si ripetesse
inevitabilmente quello che, dopo già non molti giorni, diventò addirittura
insopportabile.
È necessaria una doverosa premessa.
Dall’altra parte dell’Adriatico l’attività
clandestina più in voga (dagli anni 70 in poi) era quelle di sintonizzarsi sui
canali radiotelevisivi italiani.
Le tre reti RAI, ovviamente. Ma poi
anche quelle Mediaset e, data la vicinanza, con le coste pugliesi con la barese
Telenorba.
Ovviamente erano i programmi
televisivi più graditi erano quelli di intrattenimento leggero; ma soprattutto
quelli in cui si faceva un uso smodato di musica leggera italiana.
E’ tutto chiaro ? Perché questa è la
premessa.
Ogni mattina, dunque, mi toccava
scendere con i colleghi al bar.
Travalicato l’argine compatto
costituito dalla massa degli avventori abituali di cui sopra, si superava la
soglia e ci si ritrovava in un locale scarno, con suppellettili ridotte
all’essenziale, appena ingentilito da una nuance di colore turchese spalmato
sulle pareti.
E accadeva. Inevitabilmente.
Inopinatamente.
Ogni mattina. Ogni volta che
entravamo lì dentro.
Il solerte barista, in qualunque
faccenda fosse impegnato in quel momento, mollava tutto. Lasciava perdere
bicchieri, cucchiaini, bicchierini, bottiglie. Perché nulla era più impellente
ed importante di quanto doveva eseguire, ne andava del suo onore personale. E
di quello nazionale.
All’ospite italiano dovevano essere
conferiti gli onori dovuti. Non poteva entrare lì dentro e consumare una tazza
di caffè turco come una qualunque cliente. Era speciale. E doveva essere
trattato con riguardi degni del più accurato protocollo diplomatico.
Certo non c’erano guardie armate alla
porta che scattassero sull’attenti e presentassero le armi. Certo non era
disponibile un tappeto rosso vermiglio che ne tracciasse il tragitto.
Ma almeno la musica, per rendergli
gli onori dovuti, quella sì. Doveva esserci.
È per questo motivo il prode
banconista, giusto il tempo di asciugarsi un attimo le mani sul canovaccio
grigiastro che gli penzolava indolente dalla cintura, si voltava e raggiungeva
la mensola su cui era posizionato un vetusto modello di radio con lettore di
musicassette incorporato.
Apriva un cassettino, tirava fuori un
oggettino di plastica: una specie di scatoletta di forma rettangolare con due
fori rotondi aperti sul lato lungo. Era una musicassetta. Se mai ricordate di
cosa sto parlando.
La afferrava con due dita, la scuoteva
debolmente, quindi la batteva con tocco deciso sul palmo dell’altra mano. Manovra
che serviva per mettere in tensione il nastro magnetico che scorreva al suo interno.
Apriva lo sportellino sul lato della
radio e ce la infilava.
Quindi si voltava verso di me
sorridendo.
Così faceva ogni mattina, anzi no:
ogni qualvolta entravo in quello strabenedetto locale. Ci fossi ricapitato dopo
solo dieci minuti, avrebbe rifatto tutto nella stessa identica sequenza.
Dopo avermi sorriso, con gesto epico
schiacciava il polpastrello sul tasto “play”.
E la musica partiva, invadendo
l’aria.
La coltre di fumo stagnante prodotta
dalle dolciastre sigarette senza filtro macedoni sembrava scostarsi
rispettosamente, incalzata com’era dall’arrivo delle note musicali man mano che
prorompevano dal micro-altoparlante che
si apriva sul lato dell’apparecchio.
E il baretto si riempiva della
melodia che più di tutte, secondo il barista, poteva rappresentare la più
autorevole forma di italianità e quindi onorare chi in quel momento la
rappresentava. Io, per l’appunto.
Era l’ "Inno degli Italiani" di
Goffredo Mameli ? Veramente, no.
Il verdiano “Va pensiero” ? Nemmeno.
Nell’aria si levava imperiosa e
struggente la voce di Toto Cutugno con il suo singolo “L’Italiano”. A tutto
volume.
E quando la canzone terminava, il barista riavvolgeva il nastro e… play… lo faceva ripartire. Continuamente, sinché non uscivo dal locale. Riavvolgi e suona. Riavvolgi e ascolta.
Toto Cutugno. Di continuo.
La seduta di tortura quotidiana iniziava
così. Prima ancora di prendere il caffè.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2020
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