“Dovete
provare le medesime sensazioni che provarono “loro”. La stessa sofferenza. La
stessa fatica.”
La ragazza che ci faceva da guida
turistica pronunciò queste parole senza alcuna empatia. Lo fece con un tono di
voce aspro e duro. Che non era solo professionalmente didascalico, ma
intenzionalmente sprezzante. Ogni parola che scaturiva dalle sue labbra era sferzata
piuttosto che pronunciata, così da poter riecheggiare fastidiosa e terrificante
nelle nostre menti.
Allo stesso modo di come “loro” le
avevano ascoltate, prima di incamminarsi a percorrere il medesimo tragitto che
a nostra volta stavamo per intraprendere.
Noi dovevamo, dunque,
immedesimarci in “loro”. Nel senso che non dovevamo solo limitarci a reagire
come “loro”; no: dovevamo proprio diventare “loro”.
E per farlo dovevamo provare le
loro stesse sofferenze. Solo così, forse, avremmo compreso.
Lei stessa, adottando quel tono
di voce così intriso di sadismo, appariva trasfigurata davanti ai nostri occhi.
Trasformata in una kapò nazista. Una di quelle virago con la divisa bruna, il
berretto nero con visiera, i teschi sulle mostrine, lo scudiscio perennemente
nella mano ed una fascia rossa con la svastica nera al braccio sinistro.
E dire che prima di quella
trasformazione la ragazza sembrava persino graziosa. Nulla di particolarmente
affascinante, in verità; ma almeno di aspetto piacevole. Aveva un aplomb
placido, addirittura remissivo. Almeno così si era mostrata a noi durante il
viaggio. Taciturna, persino assente.
Sino a quel momento. Sino a
quando, cioè, arrivammo alla stazione ferroviaria di Bohušovice-nad-Ohří, nella
Repubblica Ceca. Sessanta chilometri a nord ovest di Praga. A due passi dalla
Germania.
Appena scesi sulla banchina la
ragazza ci impose di disporci allineati uno di fianco all’altro. Dopo di che, iniziò
ad arringarci con quel tono di voce sprezzante e sadico. Trasfigurata. In una
terrificante e sadica kapò. Più che parlarci, ci abbaiava contro. Come se si
stesse rivolgendo a “loro” e non a noi. Non ad un gruppo di attoniti e
disorientati turisti. Il tono della sua voce era orrendamente modificato. Come
se scaturisse da corde vocali arrochite dalla consuetudine di urlare.
I suoi ordini furono perentori e
minacciosi. “Non utilizzeremo il bus.
Arriveremo lì a piedi, come ci arrivarono loro. Marciando. E siete fortunati.
Mica come loro, che dovevano camminare velocemente. Senza potersi fermare
nemmeno un attimo a riprendere fiato. Nemmeno per raccogliere quel che cadeva
dai loro bagagli... Perché se si attardavano anche solo per un istante li
facevano muovere a calci nella schiena. Lo farei volentieri anch’io con voi, se
potessi. E non è detto che non lo faccia davvero... Andiamo, ora. Muoversi!”
In realtà lo scopo della ragazza era,
né più né meno, che quello di terrorizzarci. Esattamente come era accaduto a
“loro” quando si ritrovarono allineati su quella stessa banchina a subire il
medesimo trattamento. Ad ascoltare le stesse parole.
Soprattutto, voleva evocare in me
e nei miei compagni di viaggio un irrefrenabile sentimento di odio. Innanzitutto
nei suoi stessi confronti, in ciò che stava impersonificando. E ci riuscì
benissimo, dal momento che fui davvero sul punto di assestarle un calcio nel
fondoschiena.
Perché, dunque, comprendessimo
appieno l’essenza del posto dove ci stavamo dirigendo dovevamo immedesimarci in
quel che avevano provato “loro” una settantina di anni prima. Totalmente. Odio
compreso.
Da quel momento in poi, noi
dovevamo essere “loro”. Punto e basta.
Di certo la carrozza del treno in
cui noi avevamo viaggiato era tutt’altra cosa che il carro bestiame impregnato
di sangue, sudore e vomito in cui “loro” venivano ammassati.
Da cui su quella stessa banchina venivano
fatti scendere spauriti e stanchi.
Per essere raggruppati,
vituperati, umiliati, spintonati, picchiati.
Per poi percorrere a piedi, con
il bagaglio in spalla, quella manciata di chilometri sino alla loro
destinazione finale. Quella che per gli anni seguenti sarebbe stata la loro
sede di vita, di studio e di lavoro. E, per molti di essi, l’ultima dimora.
Terezin.
O, alla tedesca, Theresienstadt:
la città di Teresa.
Così l’avevano battezzata poco
più di un secolo prima.
Un nome persino gentile, che mal
si addiceva al filo spinato e al cordone di guardie armate che a quei tempi la
circondavano.
Era una piccola città fortificata
riconvertita in ghetto.
Anzi, in un enorme campo di concentramento.
Nato per essere esibito al resto del mondo come esempio di civiltà e rispetto
dei diritti umani dei suoi “ospiti”. Così da sviare l’attenzione degli
organismi internazionali da tutti gli altri lager; quelli in cui si operava lo
sterminio sistematico.
Né più né meno che una truffa.
Da negozianti disonesti: quelli
che espongono in vetrina la mercanzia migliore, per poi rifilare al cliente
malaccorto gli scarti di magazzino.
Almeno in questo i nazisti
superarono in laidezza la proverbiale furbizia mercantile degli stessi ebrei
che tanto esecravano.
“Loro”, quelli furono destinati a
riempire gli edifici di quella cittadina, erano gli abitanti del quartiere
ebraico di Praga.
Uomini, donne e soprattutto
bambini. Tanti, tantissimi bambini.
Tutti strappati alle loro case,
alle loro scuole, ai loro giochi, alle loro abitudini, ai loro affari.
Forzatamente condotti in quella fortezza
adagiata nella campagna boema.
È lì condannati a vivere il resto
della propria esistenza lontani da consuetudini ed amicizie, da sinagoghe e
templi, da scuole e bistrot. Depredati della propria Storia e delle proprie
radici.
A “loro” si aggiunsero moltissimi
altri deportati; tutti di altissimo livello intellettuale. Artisti, attori,
registi, scrittori, musicisti, filosofi, diplomatici, letterati, giuristi.
Giunsero dalla Germania, dall’Austria,
dalla Danimarca, da tutta Europa. C’era anche qualche italiano.
Tutti rigorosamente ebrei.
Terezin all’epoca era in grado di
accogliere un massimo di settemila abitanti. Ne furono stipati oltre
centoquarantamila. Ne rimase vivo uno su dieci.
Non ce la fecero soprattutto i
bambini, schiantati soprattutto dalla carenza di cibo e dalle epidemie.
In
realtà, agli occhi della comunità internazionale quel campo veniva gabellato come
fosse una sorta di residence turistico in cui la popolazione ebraica era
felicemente ospitata.
In
cui gli adulti avevano tutti un lavoro.
In
cui i piccoli frequentavano regolarmente le scuole.
Ed
in cui nel tempo libero si poteva assistere ad incontri sportivi, concerti,
spettacoli, eventi letterari.
Tutto
doveva apparire fuor che un luogo di detenzione.
A
parte il fatto che si veniva mitragliati appena si metteva il naso appena fuori
la cinta muraria.
Un
palcoscenico della menzogna, dunque. In cui si rappresentava la mistificazione
della realtà ogni qualvolta giungevano a visitarlo gli Ispettori della
diplomazia internazionale. Soprattutto quelli della Croce Rossa.
Un
teatrino i cui attori erano gli stessi internati; che dovevano interpretare la
parte di ospiti felici e sereni.
Ma
che, calato il sipario, tornavano alla quotidiana vita di stenti ed
umiliazioni. Sino alla farsa successiva.
Sempre
che non soccombessero nel frattempo.
O
che non venissero portati via. Ai campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz. Da dove
non tornavano più.
Era dunque lì che stavamo
andando. A Terezin.
Di lì a poco avremmo visitato il
famigerato “Campo dei Bambini”. Così veniva chiamato.
Di lì a poco avremmo calcato quello
stesso suolo sul quale aveva risuonato il rumore concitato dei passi dei
prigionieri e dei loro carnefici.
Dove avevano riecheggiato il
crepitio delle raffiche delle mitragliatrici, le urla degli aguzzini e le grida
straziate delle vittime.
Di lì a poco avremmo visto. E,
chissà, forse compreso.
Ci incamminammo. E tutto taceva.
Tutto era spettrale.
Fu il silenzio più cupo la
colonna sonora che accompagnò quel nostro arrancare sul Golgota della memoria.
Per tutto il tragitto che andava
dalla stazione ferroviaria sino alla nostra destinazione non incrociammo anima
viva.
Nessuno era per strada, né alle
finestre. Nessuno: né adulti, né bambini.
Non un rumore, non un suono, non
un brano musicale, non una voce scaturiva dalle abitazioni, dai magazzini,
dalle officine. Nulla.
Si udivano solo i nostri respiri resi
affannosi dal caldo e dalla fatica emergere ritmicamente tra un passo e
l’altro.
Uscimmo dall’abitato, continuando
a marciare a testa bassa in aperta campagna.
Procedemmo per una quindicina di
minuti sotto un sole cocente smanacciando istericamente l’aria per allontanare nuvole
di tafani, che ci si attaccavano addosso ammaliati dal sudore di cui eravamo ormai
totalmente intrisi.
Il benvenuto alla Fortezza ci fu
dato nella peggiore maniera che avessi mai potuto immaginare e temere. Dall’immobile
rincorrersi di decine di lapidi annerite dal tempo e dall’incuria.
Eravamo arrivati a Terezin.
Quello che avevamo davanti ai
nostri occhi era il suo cimitero. Eravamo al cospetto dell’area di sepoltura
del campo.
Le pietre tombali erano nella
maggior parte dei casi contrassegnate da una stella di David incisa sotto i
nomi degli inumati.
Su alcune di esse erano visibili
le date di nascita e di decesso.
Quando le lessi rimasi sconvolto:
erano in maggioranza bambini.
Non c’erano epitaffi su quei
simulacri. Solo nomi e date.
Solo tanti, tantissimi sassolini.
appoggiati su di essi; come è consuetudine nella tradizione ebraica. Perché i
fiori appassiscono ed i loro petali volano via col vento. Ma le pietre no.
Rimangono lì, così che la memoria non abbia mai a cessare.
Di lì a qualche centinaio di
metri si stagliava, orrido e tetro, il caseggiato nel quale erano dislocati i
forni crematori. Lo raggiungemmo.
Era in quella specie di stabilimento
dalle pareti nere come se fossero verniciate di pece che chi un tempo era stato
un figlio, un nipote, un fratello, una sorella, una ragazza, un amico che
correva, giocava, suonava, studiava, rideva, piangeva, amava, sognava veniva
ridotto a null’altro che un mucchietto di cenere. Da versare in una scatola di
cartone. E da seppellire velocemente.
Era già troppo per me. Quel poco
che avevo visto mi aveva talmente sgomentato che mi sarei volentieri fermato
lì. E tornato indietro.
Cos’altro avrei dovuto guardare,
vedere, subire, sopportare proseguendo oltre?
Tuttavia non mi fermai. Dovevo
continuare. Lo dovevo a “loro”. Lo dovevamo a “loro”.
Per cui tutti insieme, in
silenzio, a testa bassa, riprendemmo il cammino verso la Fortezza Maggiore.
Poco prima di varcane l’ingresso
scavalcammo un canale in cui un gruppo di nutrie si rincorreva sollevando alti
spruzzi di acqua.
Chissà se ce n’erano anche settanta
anni prima.
Chissà se anche i bambini che
percorsero quello stesso ponticello almeno per un attimo abbozzarono un sorriso.
Chissà.
Superato il varco nelle mura ci
ritrovammo nell’inferno che fu. Eravamo entrati a Terezin.
Il benvenuto ci fu dato dalla
consueta grottesca scritta: “ARBEIT
MACHT FREI (Il Lavoro Rende Liberi)”, apposta su un cancello.
Non c’era campo, di prigionia o sterminio che
fosse, che non la esibisse al suo ingresso in tutta la sua paradossale
assurdità.
Il resto della visita fu un
susseguirsi di segni e testimonianze che si srotolarono davanti ai nostri occhi
come fotogrammi di una pellicola cinematografica. Di un film già visto. Troppe
volte.
Quel che invece gli occhi (e
nessuno degli altri sensi) non potevano cogliere erano gli aspetti più
spiccioli della umana quotidianità
Gli odori, i suoni, le speranze,
le emozioni, i dolori che un tempo avevano riempito l’aria di quei luoghi… Quelli
no, sicuramente non potevamo a nostra volta provarli. E nemmeno la inaudita
sofferenza di chi in quei luoghi soggiornò.
Gli ambienti in cui “loro”
vissero erano glaciali d’inverno e torridi nei mesi estivi.
L’igiene era inesistente. Così
come il cibo e le medicine.
In tali
condizioni dilagavano promiscuità e sporcizia. Per cui le epidemie erano
all’ordine del giorno. Si ammalavano in tantissimi e ne morivano parecchi.
Troppi.
E
morivano parecchi bambini. Tanti. Troppi.
Girammo a lungo nella Fortezza.
Sinché la guida non ci concesse la grazia di una pausa.
Ella stessa era ormai diversa
dalla virago in cui si era trasfigurata alla discesa dal treno. Sembrava essere
rientrata nei panni della ragazzina anonima, persino gentile e comprensiva.
Il suo scopo, quello di
esasperarci, era ormai stato raggiunto.
Il senso dell’orrore, ormai, ci veniva
trasmesso da tutto quanto ci circondava. Non era più necessario che lo evocasse
lei.
Il gruppo si sciolse. Ci saremmo
ritrovati dopo un’ora per proseguire la visita.
Fui felice di quella sospensione.
Avevo davvero necessità di starmene da solo. All’aperto. Ma soprattutto solo.
Mi allontanai dal resto del
gruppo.
Raggiunsi lentamente la grande piazza
che si apriva nella zona centrale della cittadina.
Era ariosa; e soprattutto ben
riparata dai raggi solari del mezzogiorno grazie sia ai suoi tanti alberi, che
all’ombra proiettata dai fabbricati che la circondavano.
Ero stremato dall’afa e sfinito
dalle emozioni.
Individuai una panchina
opportunamente ombreggiata e mi ci sistemai. Più comodamente possibile.
Poggiai il dorso sullo schienale
del sedile, reclinai il capo all’indietro sino a poggiare la nuca e diressi lo
sguardo in avanti.
Di fronte a me, a una decina di
metri di distanza, si stagliava l’edificio che all’epoca del Campo era
utilizzato come scuola.
Chiusi gli occhi, inspirai profondamente
e rilassai i muscoli.
Dal terreno sentivo salire,
gradevole, un fragrante odore di mughetto ed erba bagnata.
Finalmente la tensione indotta da
tutte le emozioni provate sino a quel momento iniziava a stemperarsi. La nebbia
grigiastra che ottenebrava la mia mente iniziò a dileguarsi; ed i pensieri di
morte e dolore che vagavano caoticamente al suo interno cominciarono a
dissiparsi.
Stava sopraggiungendo ad
abbracciarmi un confortante stato di torpore. Stavo iniziando ad addormentarmi.
Poi giunsero alle mie orecchie
quelle voci. Non in maniera brusca, ma aumentando gradualmente di intensità. Come
se qualcuno stesse girando lentamente la manopola del loro volume.
Erano grida spensierate di
bambini.
Per nulla fastidiose, tutt’altro.
Anzi, assolutamente confortanti.
Cos’altro avrebbe potuto essere
più rassicurante che sentire risuonare voci innocenti ed allegre in un posto
dove la presenza della Morte incombeva dovunque?
Dove tutto era intriso di dolore?
Dove i muri, la terra, gli alberi, forse anche le nuvole stesse sembravano
grondare il sangue di cui erano stati impregnati al tempo della follia?
Proprio dove un tempo erano
riecheggiate grida di dolore e singulti di disperazione, ora imperversavano
chiassose parole di gioia e grida giocose.
Ascoltarle non poteva certo
infastidirmi. Assolutamente no!
Ad un certo punto, tra un lazzo
ed una canzoncina, tra un gridolino ed una risata, iniziarono a diffondersi
nell’aria delle note musicali.
Le percepivo sempre più
distintamente. Un po’ impacciate, insicure, non sempre limpide. Ma armoniche e
coerenti.
Qualcuno lì, a due passi da me,
stava suonando un violino.
Aprì gli occhi. Ed incrociai il
mio sguardo con il suo.
Quel ragazzino non era più alto
di un metro e trenta centimetri al massimo.
I suoi capelli erano biondo
scuro. O, meglio, biondo sporco; dal momento che sicuramente da parecchio tempo
non conoscevano la decisa azione di uno shampoo.
Aveva una corporatura esile. Il
volto era scavato e pallido.
Le unghie delle mani apparivano
orrendamente sporche e venate di striature di un qualcosa di color grigiastro.
Vestiva con una maglietta a maniche
corte, azzurrina, un bel po’ sdrucita soprattutto al colletto e sotto le
ascelle. E costellata di decine di macchie di sporco di tutti i colori e le
forme possibili.
Sul petto, all’altezza
all’incirca del cuore, penzolava scucito un frammento di stoffa di color giallo
limone. Probabilmente doveva essere quanto rimasto di uno stemma distintivo di
un istituto scolastico o di un gruppo sportivo o di chissà cos’altro.
Indossava calzoni corti, a metà
coscia. Come da noi portano (anzi, portavano) soltanto i bambini più piccoli.
Erano di colore grigio chiaro. Notai che alla vita li teneva sollevati una
cordicella di canapa, invece che una cintura.
Le scarpe, grigie, apparivano
completamente usurate e deformate, con entrambe le punte spalancate come le
fauci di un coccodrillino affamato. Anche in questo caso erano due cordini di
filo a fungere da stringhe.
Il ragazzo smise di suonare ed
iniziò anch’egli a fissarmi incuriosito.
Sorrise in maniera così
accattivante che, per quanto il tono del mio umore non fosse dei migliori, mi
rivolsi a lui con la massima cordialità di cui fossi capace: “Buongiorno, giovane…”.
“Buongiorno
a lei, signore.”
Aveva risposto in modo davvero
assai cortese. Ed in un italiano pressoché perfetto. Evidentemente lo studiava
a scuola e, avendo probabilmente compreso da dove venissi, mi usava la cortesia
di mettermi a mio agio rispondendomi nella mia lingua.
Gli chiesi come si chiamasse.
“Mi
chiamo Gregor. Gregor Samsa”.
Incalzai: “E dimmi… Quanti anni hai?”
“Dieci
anni e mezzo. Quasi undici.”
Ammiccai di fronte al tono
impettito con cui mi aveva riposto. “Sei
grande, dunque… Sei di queste parti, di Terezin?”
I suoi occhi vennero velati da
un’ombra di tristezza “No, signore. Sono
nato a Praga. Nel quartiere di Josefov. Però sono qui da un anno, ormai.”
“Ah,
dunque ti sei trasferito. E ti trovi bene qui…?”
Assentì; ma senza convinzione. “Si. Abbastanza…. Non è male vivere qui. C’è
tanta aria… Non è come stare in città. Qui
è meglio perché si può stare più tempo all’aperto. Beh, certo un po’ mi manca il vecchio
quartiere. Ma ho tanti amici anche qui.”
Aveva iniziato ad incuriosirmi.
Per cui gli chiesi cosa gli mancasse maggiormente del posto dove viveva prima
di trasferirsi lì.
Rispose di getto.
“Sa…
cosa, signore? Quello che mi manca di più è che quando uscivo di casa mi facevo
il giro delle botteghe nella strada dove abitavo. I negozianti erano tutti
amici di mio padre… Era come appartenere tutti alla stessa famiglia. Io ogni
pomeriggio, appena finito di studiare, li andavo a trovare tutti. E alla fine
del giro mi ritrovavo sempre qualche moneta in tasca o qualche dolcetto nella bocca.
Sempre. Sa che anche qualcuno di loro è venuto qui? Non tutti però…”.
Accompagnò queste parole con un
sorriso ancora più luminoso di quello con cui mi aveva salutato.
Continuai: “Ci vai a scuola?”
“Certo
che sì. E sono bravo, sa? Sono bravissimo in Storia. E dice il maestro che
scrivo anche molto bene. Mi piace scrivere... Non esistessero l’aritmetica e la
geometria, sarebbe ancora meglio però…” E proruppe in
una sonora risata. “Signore, sa che
l’anno prossino anch’io scriverò sulla rivista della scuola? Si chiama VEDEM. In
realtà bisognerebbe avere già dodici anni per entrare in redazione, ma il mio
maestro ha detto che chiederà di fare una eccezione per me… Capisce? Proprio
per me. Perché sono bravo!”
VEDEM. Dove avevo già
sentito quel nome? Rammentai che così si chiamava il giornalino edito dai
giovani internati del campo di Terezin. Era una rivistina culturale autorizzata
dai tedeschi, sempre allo scopo di conferire una facciata di “normalità” al
campo.
Evidentemente si stavano
pubblicando delle edizioni rievocative. Proprio una bella iniziativa.
E mi sembrò davvero bello che vi
scrivessero ragazzi coetanei agli internati che lo animarono a quei tempi
Ripresi il mio dialogo con
Gregor. “Congratulazioni, allora. E cosa
pensi di pubblicare?”
“Quello
che mi chiederanno di scrivere… scriverò. Arte, poesia, letteratura… quello che
vogliono. Ma se potrò scegliere chiederò di potere scrivere articoli di critica
musicale.”
“Addirittura…”
“Certo.
Perché la musica è la mia passione. Non ha sentito prima come suonavo?”
“Eccome
se ti ho sentito. Mi hai anche svegliato!” Suggellai questa frase con una sonora risata. Quindi
tornai serio “No…dai. Scherzo. Non mi hai
disturbato. Non dormivo, in realtà. Ti ho ascoltato con vero piacere.”
Gregor chinò il capo in una
specie di piccolo inchino, come quello che si esegue quando si ringrazia il
pubblico che applaude. “Grazie,
signore.”.
“Prego.” Risposi con ironico sussiego... “Ascolta. Non è che hai anche tu un po’ di appetito? Ho giusto
qualcosa qui nello zaino. Dai, dividiamocela.”
Tirai fuori un paio di merendine
e gliene porsi una. L’addentò e la inghiottì così rapidamente, che non potetti
fare a meno di allungargli anche l’altra. Quella che avevo tenuto per me.
Probabilmente in casa di quel
ragazzo non dovevano passarsela troppo bene a giudicare dal suo aspetto, dallo
stato dei suoi vestiti e dal suo appetito. A quella seconda offerta di cibo,
difatti, Gregor mi guardò con occhi pieni di gratitudine. E divorò anche
l’altra merendina senza esitare un attimo. Quindi si passò il dorso della mano
sulla bocca per nettarsi le bricioline rimaste attorno agli angoli delle
labbra; e ingurgitò anche quelle con voracità.
Quando ebbe deglutito il tutto, sollevò
il violino, sistemò il fondo della cassa armonica nell’incavo tra collo e
spalla sinistra, impugnò con stile l’archetto e con aria da concertista
navigato mi comunicò con tono solenne: “E
adesso, per ringraziarla del cibo che gli ha donato, il suo umile musico Gregor
Samsa suonerà per lei.”
“Ah
sì? Beh, grazie mille…”
gli risposi con un lievissimo accenno di ironia.
“Prego,
signore. Sono bravissimo, cosa crede… Sa che sono passato a suonare in terza posizione?”
“Accidenti…
nientemeno che in terza posizione.” risposi nuovamente ironico, dal momento che
ignoravo nella maniera più assoluta di cosa stesse parlando.
Rispose raggiante d’entusiasmo “E sì che sono bravissimo! Lo sa che il
Maestro Hans Krása mi ha preso nella sua orchestra? Ad ottobre eseguiremo un
grande concerto qui a Terezin. Suoneremo un’opera che si chiama BRUNDIBÁR. E ci
sarò anch’io. Non vedo l’ora...”.
Così come mi era successo poco
prima, quando avevo sentito il nome del giornale scolastico, ebbi di nuovo la
sensazione di sapere di cosa stesse parlando il ragazzo.
Rovistai di nuovo nei cassetti
della mia memoria, sinché non ricordai.
L’opera BRUNDIBÁR fu
suonata proprio lì a Terezin nell’ottobre del 1944 in occasione di una
ispezione alle condizioni di vita del campo da parte della Croce Rossa
Internazionale. In quel modo si riuscì a far credere al mondo che quel posto fosse
un’oasi di cultura e di istruzione. La parte terribile della storia sta nel
fatto che, subito dopo aver terminato quella rappresentazione, tutti gli
orchestrali (sia gli adulti che i ragazzi) furono trasferiti nel campo di
Auschwitz. Da dove non uscirono più. Ormai non servivano più…
Nel frattempo che mi
abbandonavo al flusso dei miei pensieri, Gregor con il suo violino era rimasto fisso
a guardarmi. Era pronto a cominciare; ma attendeva educatamente che io gli
dessi il via.
Lo guardai, sorrisi e lo autorizzai
a suonare. “Attacca … coraggio”.
“Le
farò ascoltare una ballata che si suona ai matrimoni. Sentirà che bella…”
Si dette il tempo da solo ad alta
voce, battendo simultaneamente quattro volte il piede per terra: “E… un, due, tre e quattro”.
Quindi attaccò una melodia
veloce, allegra, coinvolgente. Irresistibile.
Era bravo davvero quel soldo di cacio. Altro che. Davvero bravo.
Lo ascoltai attentamente sino al
termine del brano.
Dopo di che risposi al suo
inchino finale con un applauso corposo e sincero. Gridai “Bravo! Bravissimo! Fantastico questo brano Klezmer.”
Replicò con un altro inchino “Grazie, signore. Veramente non so come si
chiami questo tipo di musica. L’ho sentita quando ero piccolo al matrimonio di
mia sorella. Mi piace e la suono ogni tanto”.
E proprio mentre effettuava quel
deferente movimento di flessione del busto così consueto agli artisti quando
hanno terminato la loro esibizione, un grosso frammento di legno si staccò dal
violino appena sopra il manico.
Era un pezzo del riccio, la
spirale che abbellisce il manico; che posatosi sul verde brillante del prato,
sembrava una grossa chiocciola marrone adagiata tra i fili d’erba.
Gregor lo raccolse e, premendo,
provò a farlo combaciare alla zona da cui si era staccato.
Notai che mentre effettuava
questa operazione le ali del suo naso iniziarono a sollevarsi ritmicamente e
gli angoli della bocca ad incurvarsi verso il basso: stava per scoppiare a
piangere.
Ma seppe trattenersi, ricacciando
indietro tutte le lacrime che erano sul punto di sgorgare.
Sollevò il capo da quello
strumento ferito e mi fissò speranzoso che gli proponessi una soluzione al
problema.
“Era
già successo. Lo avevo già riparato” –
disse – “Vede? Avevo infilato un chiodino
per tenere fermo il pezzo. Ma ora non regge più…”
Sorrisi, cercando di essere più
rassicurante che mi fosse possibile.
“Stai calmo. Vediamo di cosa di tratta”.
Afferrai saldamente il manico con
una mano, con l’altra presi il frammento divelto e lo appoggiai sul riccio
tentando di comporre la frattura. Le due superfici combaciavano perfettamente;
e questo era già positivo. Si trattava, a quel punto, solo di fissarle l’una
contro l’altra il più tenacemente possibile. Il chiodino che Gregor aveva
infilzato nel legno era ancora al suo posto; ma evidentemente non era
sufficiente. Ci voleva qualcos’altro...
Mi venne un’idea. Mi sfilai
l’orologio e staccai il cinturino in cuoio dalla cassa. Dopo di che, poggiai il
frammento staccato al riccio facendolo aderire per bene. Passai attorno ad
entrambi quella specie di fettuccia e strinsi il tutto, fissandola facendo
attraversare uno dei forellini alla testa dal chiodino che sporgeva dal legno.
Reggeva. Anzi, reggeva proprio bene.
E questa era la cosa più importante.
Restituii il violino riparato
alla bene e meglio al suo legittimo proprietario. Gregor sino a quel momento
aveva seguito tutta l’operazione con gli occhi sgranati e con l’espressione
stupefatta di chi stesse osservando un mago all’opera.
“Visto
che riparazione?” dissi
tronfio come se avessi appena eseguito una operazione chirurgica a cuore aperto
e non un modesto intervento di ebanisteria.
E rincarai la dose “Altro che maestro liutaio… Sono proprio un
artista. Anzi, sai che ti dico? Io quest’opera te la firmo pure”.
Tirai fuori la penna dal taschino
e, sollevato il cinturino, sulla parte interna vergai le mie iniziali: “C” ed
“L”. Che con il loro colore blu brillante spiccarono nettamente sulla
superficie chiara del cuoio. Quindi restituì definitivamente lo strumento al
suo legittimo proprietario, rassicurandolo “Ora
potrai suonare di nuovo”.
Il ragazzo non cessava di fissarmi.
Mi teneva gli occhi incollati al viso, con una espressione di gratitudine che
mai avevo visto in nessuno nella mia vita. Perlomeno sino a quel momento.
Quando parlò, la sua voce era
tremula, rotta dalla commozione. “Grazie.
Grazie di cuore, signore. È Yahweh che l’ha mandata ad aiutarmi”.
Risposi assolutamente sorpreso: “Chi? Yahweh…? E chi sarebbe… Scusami, ma non ti seguo…
non capisco di cosa tu stia parlando…”.
“Lei
non è credente, signore?”.
Replicai con un po’ di
impaccio: “Effettivamente non molto,
ragazzo mio”.
“Ah,
ho capito…” Rimase un po’ assorto a
rimuginare chissà cosa, quindi disse “Mi
scusi, signore. Posso farle una domanda?”.
“Certamente…
falla pure”.
“Lei, di sera,
prima di dormire, prega?”.
“Assolutamente
no. Non succede mai”.
“Ma
proprio… mai mai?”.
“Mai!”
“Ho capito.” e tornò a rimuginare in silenzio, guardando nel
vuoto e inseguendo chissà quali pensieri.
Quel suo atteggiamento
diventò per me addirittura imbarazzante, al punto che mi sentii in dovere di
abbozzare una mezza giustificazione. “In
realtà, caro Gregor, se mai volessi farlo (e bada bene che non ti sto dicendo
che lo vorrei) non saprei nemmeno come fare… da dove iniziare… Non conosco
nessuna preghiera”.
Sgranò gli occhi, come se
fosse stato rinfrancato dalla mia risposta. “Ah,
se è solo per quello… non c’è problema. Faccia come faccio io”.
“Dimmi”.
“Quando arriva il momento in cui intende pregare, lei chiuda gli occhi e
si metta a pensare… deve pensare a tutto quanto sia bello per lei… Paesaggi,
fiori, montagne… Ma anche persone: parenti, amici, donne… Pensi a tutto quello
che lei vuole, purché sia qualcosa che lei ritenga bello."
“E perché fare questo… che senso ha…”
“Perché la Bellezza è sacra. Se lei pensa alla Bellezza, in quel momento
sta pensando a chi l’ha creata. Sta pensando a Lui. E se pensa a Lui,
automaticamente sta pregando... non crede?”
Non riuscì a evitare di
manifestare al ragazzo il mio scetticismo.
“Potresti anche aver ragione, Gregor. Ma, sai, non sempre si arriva a sera con
la voglia e la possibilità di pensare alle cose belle… Quando si è stanchi è
più facile ricordare quel che è successo di brutto durante il giorno. E non il
contrario. Quindi non si riesce a pregare nella maniera che tu suggerisci.”
“Allora, in quel caso, quando è molto stanco o scoraggiato o addolorato e
non le viene di pensare a nulla di bello… sa che deve fare? Chiuda gli occhi e
ripeta, una per una le lettere dell’alfabeto… Dentro di sé… Sottovoce. A, B, C,
D, e tutte le altre. Sino alla ZETA.”
“E a che serve... Che senso ha…”.
“Serve… serve… Lei ci mette le lettere. E poi sarà Lui a metterle in
ordine e a tirarne fuori qualcosa. Con le lettere si fanno le parole, no? Lui
le prenderà, le metterà assieme e le trasformerà in Poesia”.
“Beh. Detto così sembra tutto
semplice… non credi?”
“Ed è così infatti. È proprio semplice. Ci pensi bene. Guardi questo
spartito. Vede? Queste sono le note. Vede come sono fatte? Sono solo dei
pallini con le stanghette scarabocchiati su questo pezzo di carta. Sono solo
delle macchioline di inchiostro messe una in fila all’altra. Poi arriva
qualcuno che le mette insieme. Io, ad esempio. Arrivo con il mio violino e le
leggo. E allora quelle macchie di inchiostro diventano Musica. Diventano Arte.
Diventano Poesia. Diventano Bellezza.
È come una Magia. Anche per Lui funziona così.
Lo so. Così fa Lui con i nostri pensieri. Li prende tutti, li mette
insieme e li trasforma”.
Quindi, ridendo di gusto aggiunse “Visto come è semplice? Ed è pure conveniente, non costa nessuna
fatica: fa tutto Lui. A noi tocca solo portare le note. Lui compone la musica.
E la suona pure”.
Non so per quanto tempo
rimasi a bocca aperta a guardarlo. Stupefatto.
Quella mezza cartuccia di
uomo era persino più basso dello schienale della panchina dove stavo seduto; ma
in quel momento aveva la statura di un grande Maestro.
Continuai a guardarlo
attonito non so per quanto tempo. Sinché non fu lui a rompere il silenzio.
Sorrise, mi fissò a sua
volta compiaciuto; quindi mi disse: “Grazie,
signore. Grazie davvero di tutto. È stato bello restare qui a parlare con lei. Ora
però devo andare. Ho le prove in orchestra tra dieci minuti. Corro.”
“Grazie
a te, Gregor. Vai a suonare, forza. Magari ci rivediamo più tardi. Se quando
avrai finito sarò ancora da queste parti ci salutiamo”.
“Si
certo. Magari.”
E aggiunse con aria triste.” Chissà…”.
Sempre impugnando il violino con
una mano e l’archetto nell’altra guizzò rapidamente attorno alla panchina su
cui ero seduto, passandomi alle spalle. Mi alzai e mi voltai per potergli
rivolgere un altro saluto; ma Gregor già non c’era più. Certo che ne aveva di
fretta. Probabilmente tra chiacchiere, merenda, suonatina e riparazione del
violino gli avevo fatto accumulare un bel po’ di ritardo.
Chissà; forse l’avrei rivisto.
Desideravo proprio che accadesse.
Ora che avevo voltato lo sguardo
indietro, notai che l’intera piazza era completamente deserta e silenziosa. I
bambini, di cui avevo udito alle mie spalle le voci giocose mentre discorrevo
con Gregor, non c’erano più. Non c’era più nessuno.
Tutto era ripiombato nello stesso
silenzio cimiteriale che mi aveva accolto quando mi ero fermato su quella
panchina a riflettere.
Tutto era fermo, immobile.
Persino i corvi restavano appollaiati sui rami senza gracchiare. Immobili, in
assoluto silenzio.
La pausa era ormai terminata. Mi
misi, quindi, in marcia per raggiungere il punto di incontro con il resto del
gruppo.
Dovevamo riprendere il percorso.
Dovevamo immergerci nuovamente in quel plasma grigiastro fatto di lacrime,
sangue, orrore, disperazione.
Ma dovevamo farlo. Lo dovevamo soprattutto
a “loro”.
Per quanto la mia generazione
fosse innocente, senza alcuna responsabilità per quanto accadde, non potevamo
esimerci da essere lì. Non solo per ricordare, ma per condividere.
Andando a respirare la stessa
aria che fu l’ultima per molti di loro. Andando a percepirne le grida ed i
singulti, le urla ed i pianti.
Così provando ad allontanare la
morsa del senso di colpa che attanaglia inevitabilmente i sopravvissuti di ogni
epoca, di ogni guerra, di ogni genocidio. Di ogni Olocausto.
Quella tempesta di pensieri e
propositi mi tenne compagnia per tutto il tragitto.
Nel frattempo la guida parlava… parlava…
e parlava. Ma non ne colsi nemmeno una parola.
Le mie gambe si muovevano in
sincrono con quelle del gruppo; ma la mia mente era da tutt’altra parte. Per
fortuna avevo incontrato Gregor, che aveva lievemente addolcito la mia
giornata. Sarebbe stato bello poterlo rivedere.
L’ultima tappa della nostra visita
era anche la più atroce: il Museo.
Dove sono conservati ed esibiti
come reliquie gli oggetti personali degli internati.
In modo particolare era possibile
vedere quanto era appartenuto ai bambini: vestiti, occhiali, matite, penne,
quaderni, oggetti di cancelleria, disegni, pagelle scolastiche, bambole,
giocattoli, strumenti musicali...
E tante, tante stelle a sei punte
di stoffa color giallo-limone che venivano cucite sugli indumenti a marchiare
ogni ospite di Terezin.
Tutto era così angoscioso.
La visione di ogni reperto
davanti al quale mi soffermavo mi evocava un dolore fisico reale. Atroce.
Il mio respiro si fece affannoso.
Ad un certo punto dovetti fermarmi appoggiandomi ad un muro, affinché si
regolarizzassero i battiti impazziti del mio cuore
Non potevo fermarmi a lungo; per
cui ripresi barcollando quell’orrida esplorazione.
Così giunsi davanti ad una
vetrinetta illuminata, all’interno della quale erano adagiati numerosi
strumenti musicali. Alcuni flauti, un paio di armoniche a bocca, qualche plettro,
un violino.
Osservandoli, iniziai a
fantasticare; cercando di immaginare se quegli strumenti erano usati da un
impettito maschietto o da una vezzosa ragazzina. Se i genitori dei piccoli
esecutori fossero presenti alle esibizioni. Se le ultime note che avevano
emesso fossero state suonate per un saggio solista oppure in un concerto. Se…
Se… E ancora se…
Il violino non appariva messo
molto bene. Il legno era ormai quasi totalmente deteriorato dal tempo e
dall’umidità.
Ed in numerosi punti appariva
scheggiato. Inoltre su buona parte della sua superficie numerose listarelle si
sollevavano accartocciandosi come trucioli; così deturpando quella cassa
armonica che in un tempo migliore doveva essere stata ben levigata e lucida di
vernice. Le corde mancavano tutte e quattro. Ed i piroli che un tempo le
tendevano erano ridotti a frammenti di legno spezzati. Ora assomigliavano
piuttosto a fiammiferi usati, infilati irregolarmente sui lati di quel che un
tempo doveva essere un manico lucido e liscio. E che ora sembrava un ramo di
ciliegio calpestato. Alla sommità del manico, un lato del riccio era
attraversato da una fenditura. Profonda al punto da consentire di intravedere
gran parte dello spessore al suo interno, che appariva di colore chiaro.
Sembrava una piaga sanguinante apertasi su una pelle bruciata.
I frammenti di quella frattura erano
ingegnosamente tenuti insieme da una specie di nastro scuro. Questo,
avvolgendosi attorno al riccio, accostava i lembi della spaccatura come fa un
cerotto su una ferita. Era evidente che quel danno era stato riparato alla
bell’e meglio con materiali di fortuna. Ma era stato fatto un buon lavoro, in
definitiva.
Mi incuriosiva sapere di cosa
fosse fatta quella specie di fettuccia brunita. Pensai che potesse essere un
tirante in metallo, magari ricavato tagliando a striscioline un contenitore in
latta. No, no. Sembrava, invece, essere fatto di un materiale morbido, più
duttile e adattabile.
Magari poteva essere una corda intrecciata
più volte per renderla più solida. No… In effetti anche questa ipotesi non
sembrava quella giusta. No. Non lo era. Una corda sarebbe apparsa sfilacciata
in qualche punto. Quella fettuccia era invece assolutamente compatta.
Doveva necessariamente trattarsi
di un qualche altro tipo di materiale.
Per scrutare meglio mi avvicinai
ancor più alla teca, arrivando ad appoggiarmici. Premetti tanto forte con la
fronte sul vetro, da stampare sulla sua superficie un alone di sudore denso e
candido. Quindi strizzai le palpebre per acuire lo sguardo.
Ora, così vicino, mi sarebbe
stato più agevole riuscire a riconoscere il materiale di quella riparazione.
Lo osservai a lungo. Ma sì… sembrava
essere cuoio. Si, si: era proprio cuoio.
Riuscì anche a notare che lungo
il senso della sua lunghezza, proprio al centro, si intravedeva una fila di
forellini distanti poco meno di un centimetro l’uno dall’altro.
Trasalii, facendo un balzo
all’indietro. Perché ad un tratto fu chiaro di cosa si trattasse.
Iniziai ad essere percorso da
brividi squassanti. Soffocai a malapena un grido portandomi una mano a coprire
la bocca.
Non c’erano dubbi: si trattava di
un cinturino da orologio.
Forse di colore marrone scuro in
origine; ed ormai abbrunito dal tempo e dalla sporcizia.
Aguzzai nuovamente lo sguardo:
dovevo essere sicuro di quel che avevo davanti agli occhi.
Scrutai quindi con estrema
attenzione, millimetro per millimetro quella striscetta forata.
Appena sotto di essa, dove il
cuoio per effetto del tempo si era ormai sollevato contraendo le proprie fibre,
si riusciva a scorgere una superficie più chiara rispetto a quella esterna. Al
centro di questa si intravedeva una piccola macchia bluastra.
A guardarla attentamente era
persino possibile distinguere che, in effetti, era formata a sua volta da due
macchioline più piccole. Sembravano due lettere. Ma sì: erano davvero due
lettere, una affiancata all’altra. Erano una “C” ed una “L”.
Le riconobbi. Erano le mie.
Iniziai a comprendere. Mi si bloccò il respiro.
Mentre non riuscivo a staccare
gli occhi da quelle macchioline di inchiostro, qualcosa mi risalì dal centro
del petto e si andò a fermare in gola. Decidendo di non muoversi più: né verso
l’alto né riscendendo da dove era arrivato.
E fu solo allora che permisi alle
lacrime di inondarmi il volto.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2019
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