Ero completamente inzuppato.
Le lenti dei miei occhiali erano ormai velate da una pellicola di pioggia, sudore e sebo così spessa da offuscarmi ogni visuale. A malapena , mentre correvo in cerca di un riparo, riuscivo a distinguere le ombre degli ostacoli da scansare.
Nemmeno un quaro d’ora addietro ero ad abbronzarmi. Disteso su uno di quegli scogli che si affacciano davanti alla Muraglia di via Venezia; dove un tempo si stagliavano le possenti mura che difendevano Bari dagli assalti saraceni. Nemmeno una nuvola in cielo che facesse presagire quanto sarebbe successo nel giro di un attimo: il nubifragio. Anzi, come pare si debba dire ai giorni nostri, la “bomba d’acqua”. Fu come trovarsi sotto il getto di una doccia con il rubinetto aperto al massimo che qualcuno, lassù, aveva dimenticato di chiudere.
Appena il tempo di raccattare le mie cose ed ero schizzato di corsa verso l’arco che interrompeva la cinta muraria, attraverso cui secoli addietro le barche entravano in città per andare ad ormeggiare sotto le bianche pareti della Basilica di San Nicola. Niente da fare: anche quell’anfratto in muratura non era per nulla idoneo al riparo. Difatti il vento vi sferzava con violenza all’interno folate di acqua sia proveniente dal cielo che sollevata dal mare. Bisognava andare oltre.
L’unica soluzione era quella di entrare in Basilica. Ne raggiunsi faticosamente l’ingresso, saltellando tra i rivoli che scendevano impetuosi come torrenti in piena ed in cui mi ritrovavo immerso sino alle ginocchia. Era aperto. Mi ci infilai. Esausto.
Procedetti lungo la navata di destra, la cui oscurità era fievolmente rischiarata dai riflessi aurei del mantello che ricopre la statua del Santo. La quale si ergeva poco oltre l’ingresso custodita e protetta in una teca di cristallo.
Entrando non mi segnai; non solo per la fretta di trovare riparo, ma perché non lo facevo ormai da tempo. Tuttavia davanti al simulacro con l’effige nicolaiana abbassai deferente il capo in segno di saluto. Si può essere agnostici quanto si vuole, ed io lo sono; ma San Nicola è sempre San Nicola. E merita rispetto. Non si discute.
Caracollai barcollando sino a raggiungere la prima panca, quella posta immediatamente davanti all’altare. E mi ci lasciai andare sopra a peso morto. Ero veramente esausto. Chiusi per un attimo gli occhi, attendendo che il mio respiro si regolarizzasse. Per qualche secondo abbandonai il capo all’indietro, poggiando la nuca sul margine dello schienale. Quindi mi stiracchiai allungando le gambe, che mantenni così tese per qualche secondo, sino a che i muscoli non iniziarono a dolere, così annunciandomi il subentrante arrivo di un crampo. Al quel punto mi sollevai, sistemandomi a sedere con la necessaria buona creanza che la sacralità del luogo richiedeva.
Aprii gli occhi. E la vidi. Era seduta proprio a fianco a me.
Quella signora mi guardava a sua volta. Era sicuramente avanti con gli anni; ma aveva un volto straordinariamente chiaro, levigato, su cui spiccavano due gote rosse che la facevano assomigliare ad una bambola vintage. A contrasto di quel volto da bambina, le sue mani erano invece percorse da un reticolo di rughe profonde e irregolari. I capelli, neri, lasciavano intravedere alla base una nuvoletta di ricrescita candida. Erano legati sulla nuca; a sua volta coperta con un velo di pizzo nero. Lateralmente al volto scendeva una veletta semitrasparente, anch’essa di tessuto nero, avvolta su sé stessa e agganciata con un ferretto alla chioma della tempia. Appena alla base del collo spiccava una collana di perle di foggia semplice; mentre nessun orecchino ornava i lunghissimi lobi delle orecchie.
La signora sedeva composta, poggiando con regalità il dorso sullo schienale della panca. Era sicuramente una donna di alto lignaggio; un’autentica aristocratica.
Mi scrutava fissa; il che mi mise decisamente in imbarazzo. Per vincere il quale, decisi di salutarla per primo.
“Buongiorno” le feci.
“Buongiorno a lei, monsignore” mi rispose con un aplomb da altri
tempi.
“No, guardi, signora. Voglio precisare…
Non sono un religioso… sono un laico; un cittadino qualunque. Sicuramente non
sono un monsignore”.
“Certo che non lo è. Lo vedo da sola. Guardi che gliel’ho detto come frase di cortesia. nella accezione francese: mio signore come monsieur. Mon-sieur …Ha compreso?” rispose guardandomi con una certa aria di altezzosità e rimproverandomi con lo sguardo come se fossi uno scolaretto disattento.
“A questo punto, Le chiedo scusa... mia
signora” ribattetti con
malcelata punta di ironia e calcando piccatamente l’accento su quel “mia
signora”.
Non
sembrò aversene a male. Anzi, abbozzò un impercettibile sorriso.
Gli istanti di silenzio che seguirono, potevano essere rotti solo nella maniera più stupida possibile. E così feci. Usando la scontatissima, banalissima, ridicola frase: “Visto che tempaccio, eh…?”
Diversamente
da quel che avrei creduto, più che esserne seccata reagì aggrottando la fronte
e fissandomi con una espressione incuriosita e partecipata, nemmeno avessi
salmodiato una citazione biblica. I suoi occhi, vispi e mobilissimi, avevano un
non so che di ingenuo candore.
Restò in silenzio; ma dal momento che continuava a guardarmi per spezzare quel silenzio imbarazzante ripresi a parlarle: “Mi signora, ella è barese… è di queste parti…? Cioè… è della Città Vecchia…volevo dire…”
“No. Sono napoletana. Anzi, sono appena
arrivata proprio da Napoli. Ma qui a Bari ho vissuto per parecchio tempo.”
“Ah, sì? E cosa l’ha spinta a tornare?”.
“Sono venuta a trovare mia figlia Bona”.
“Sua figlia vive a Bari, dunque.”
“In verità mia figlia… viveva a Bari… Ora ci è sepolta.”
Quella frase ebbe in me l’effetto di una colata di cubetti di ghiaccio versata giù per il collo. Restai in attonito silenzio per un po’. Quindi, quando ridetti fiato alla voce, non riuscii a dire altro che “Mi spiace… Non potevo immaginare…”
“Non si crucci, monsignore. È
inevitabile che accada. Ognuno nasce sapendo già di dovere morire, prima o poi.
È ineluttabile. Lo sa di certo anche lei…”.
“Giusto, mia signora. È che troppo spesso, percorrendo il tragitto che va dalla nascita alla morte, strada facendo ce lo scordiamo. E soffriamo quando ci viene rammentato dal Fato con la perdita di qualcuno a cui vogliamo bene”.
“Ha proprio ragione, monsignore” disse soavemente.
Quindi
riprese, cambiando discorso: “Sa che mi
sentivo davvero bene quando abitavo qui a Bari?
Fu proprio un bel periodo quello. Forse il più bello della mia vita.”
“Ma davvero… Che cosa mi sta dicendo...
Beh, da barese purosangue mi fa proprio piacere sentirglielo dire”.
“A Bari ci venni che avevo trent’anni. E ci sono rimasta parecchio; per quanto dopo il matrimonio di mia figlia iniziai ad andare su e giù da Napoli. Ma ogni volta mettevo piede qui… che bello che era. Che gente meravigliosa. Quanto mi sono stati vicini… Anche quando le mie cose non andarono più bene come avrei voluto. Sa, monsignore… nella mia vita ho sofferto tanto. Tantissimo. Non ho avuto una vita facile. Ma quando venivo qui a Bari le mie pene si addolcivano, mi tornava voglia di vivere, di realizzare, di fare qualcosa di grande per questa città.”
Replicai con entusiasmo: “Non immagina quanto condivido quello che mi sta dicendo, mia signora. Io stesso, per tanti anni sono stato lontano da questa città, per lavoro. E le assicuro che è stata un’autentica sofferenza per... A proposito, Lei di cosa si occupa… o comunque si occupava? Poco fa mi parlava di produzione, di realizzazioni… Era forse una imprenditrice?”.
“Una specie… diciamo pure così”
“Se non le va di parlarmene, tranquilla; fa lo stesso per me…”
“No, no. Anzi. Mi fa piacere ricordare quei tempi. Vede, come le accennavo… non ho avuto una vita familiare tranquilla. Soprattutto non ho avuto dei parenti leali ed affidabili; in particolar modo dalla parte di mio marito. Si chiamava Gian Galeazzo Maria Sforza”. Si interruppe per un attimo, dando sfogo ad una risatina di scherno. Riprese: “Era un settentrionale… carattere difficile. Lo sposai a Napoli. Un matrimonio che fece epoca… Da lui ebbi quattro figli: Francesco, Bona, Ippolita e la povera Bianca che morì all'età di 3 anni.”. La sua espressione divenne ad un tratto triste ed assorta; e qualcosa di liquido per un istante luccicò nei suoi occhi.
Ricominciò
con aria risoluta: “All’inizio venni qui
a Bari solo per tutelare interessi e proprietà che spettavano a me, e quindi ai
miei figli. E che i parenti di mio marito tentarono in tutti i modi di portarmi
via. Ma poi… poi mi innamorai di questa città e della sua gente. Venni ad
abitare proprio da queste parti, in una grande casa messa di fronte a quel
posto che chiamano Jarche Vasce (Arco Basso).
E iniziai a darmi da fare. Per me, per
Bona, ma soprattutto per i baresi.
Innanzitutto feci in modo che questi coltivassero sempre di più l’arte del commercio. E che diamine; essere nati con la fortuna di vivere davanti al mare più trafficato del Mediterraneo e non sfruttarne le potenzialità. Non era concepibile. Con me cambiò tutto. E a sostegno dell’attività mercantile, misi su alcune industrie. E migliorai i servizi ed i trasporti. Non solo. Ripristinai il molo foraneo, ristrutturai il castello. E volli che i bambini ricevessero una istruzione completa, oltre che imparare il mestiere per portare il tozzo di pane a casa. Lo sa, caro monsignore, che convinsi i Gesuiti della chiesa qui di fianco ed i priori di altri conventi a mettere almeno due frati a disposizione della popolazione con il compito di fare scuola ai cittadini? E poi, con uno scrittore mio amico di Modugno, Amedeo Cornale, ci mettemmo a stampare libri. Ma ci pensa, monsignore… Stampare libri. Qui a Bari.”
“In tutta sincerità quel nome non mi dice nulla: Ma…sa… come le dicevo, signora, è da tempo che manco da Bari. Si vede che mi è sfuggito…”
“Di certo… non avevo tutti dalla mia parte. A parecchi non piacevo. È nella natura delle cose. E qualche volta hanno anche avuto anche ragione a criticarmi. Come quando Giosuè De Ruggiero, che era uno dei miei collaboratori più fidati, facendo la cresta sui conti acquistò un bel po’ di terreni dalle parti di Binetto. Ed io non me ne ero accorta. Ma chi non fa, non sbaglia; vero monsignore?”
“Non fa una grinza, mia signora!”
“Comunque, lavorando sodo, riuscii a mettere su una grande dote per mia figlia Bona. Bellissima com’era, veniva corteggiata da mezzo mondo. Alla fine sposò Sigismondo: un pezzo grosso polacco. Forse un po’ troppo vecchio per lei: era già vedovo ed aveva cinquantun anni quando me la portò via. Se ne andarono a vivere a Cracovia. Ma Bona a Bari ci tornava spesso. Eccome se ci tornava. Aveva sangue barese nelle vene. E ne andava fiera. Ecco perché riposa qui. E io sono felice che sia, così”.
Nuovamente i suoi occhi brillarono di lacrime. Ma riprese immediatamente il suo piglio aristocratico.
“Or dunque, monsignore. Adesso basta con i ricordi. Ora devo proprio lasciarla, È tardi. Devo andare.”
“Mi permetta una domanda, mia signora. Una sola, prima che vada via. Ma Lei… Lei… chi è… Come si chiama?”
“Non gliel’ho detto, monsignore? Mi chiamo Isabella. Sono Isabella d’Aragona.”
Un brivido mi percorse la schiena. E una vertigine scosse le mie viscere facendomi barcollare.
Quando la Signora aveva annunciato la sua intenzione di congedarsi da me, mi ero rispettosamente alzato per poterla salutare. Ma, udito quel nome, ero ripiombato di peso sulla panca. Attonito. Incredulo. Stordito. Non riuscivo a fare altro che fissarla. Fu lei a rompere l’impasse di quel momento di sospensione temporale; attimi in cui non riuscivo a comprendere in quale stramaledetta dimensione del tempo e dello spazio mi stessi ritrovando.
Continuò: “Ora vado. Bona, la mia adorata figlia, mi attende. A rivederla, prima o poi, caro monsignore. E grazie per la bella chiacchierata.”. Quindi mi fece dono di un sorriso la cui luminosità fendette le tenebre della chiesa, rischiarandola a giorno per un attimo.
Si alzò. Si voltò. E procedette lentamente verso l’abside. Piano piano, passo dopo passo. Superato il trono marmoreo dell’Abate Elia- E continuò senza mai fermarsi verso il mausoleo. Proprio quello dove ancor oggi riposa Bona Sforza, Regina di Polonia, Granduchessa di Lituania, Duchessa sovrana di Bari, Signora di Modugno e di Palo del Colle.
Appena
arrivò lì davanti si fermò e volse lo sguardo verso l’alto, fisando il punto
dove si staglia la figura della Sovrana nell’atto di pregare a mani giunte.
Quindi allungò il braccio destro e poggiò sul marmo il palmo della sua mano. E
scomparve, dissolvendosi in un tutt’uno col marmo scuro della scultura.
Fu allora che una lama di luce penetrò all’interno della Basilica attraverso il rosone della facciata principale.
Aveva cessato di piovere.
Nemmeno un quaro d’ora addietro ero ad abbronzarmi. Disteso su uno di quegli scogli che si affacciano davanti alla Muraglia di via Venezia; dove un tempo si stagliavano le possenti mura che difendevano Bari dagli assalti saraceni. Nemmeno una nuvola in cielo che facesse presagire quanto sarebbe successo nel giro di un attimo: il nubifragio. Anzi, come pare si debba dire ai giorni nostri, la “bomba d’acqua”. Fu come trovarsi sotto il getto di una doccia con il rubinetto aperto al massimo che qualcuno, lassù, aveva dimenticato di chiudere.
Appena il tempo di raccattare le mie cose ed ero schizzato di corsa verso l’arco che interrompeva la cinta muraria, attraverso cui secoli addietro le barche entravano in città per andare ad ormeggiare sotto le bianche pareti della Basilica di San Nicola. Niente da fare: anche quell’anfratto in muratura non era per nulla idoneo al riparo. Difatti il vento vi sferzava con violenza all’interno folate di acqua sia proveniente dal cielo che sollevata dal mare. Bisognava andare oltre.
L’unica soluzione era quella di entrare in Basilica. Ne raggiunsi faticosamente l’ingresso, saltellando tra i rivoli che scendevano impetuosi come torrenti in piena ed in cui mi ritrovavo immerso sino alle ginocchia. Era aperto. Mi ci infilai. Esausto.
Procedetti lungo la navata di destra, la cui oscurità era fievolmente rischiarata dai riflessi aurei del mantello che ricopre la statua del Santo. La quale si ergeva poco oltre l’ingresso custodita e protetta in una teca di cristallo.
Entrando non mi segnai; non solo per la fretta di trovare riparo, ma perché non lo facevo ormai da tempo. Tuttavia davanti al simulacro con l’effige nicolaiana abbassai deferente il capo in segno di saluto. Si può essere agnostici quanto si vuole, ed io lo sono; ma San Nicola è sempre San Nicola. E merita rispetto. Non si discute.
Caracollai barcollando sino a raggiungere la prima panca, quella posta immediatamente davanti all’altare. E mi ci lasciai andare sopra a peso morto. Ero veramente esausto. Chiusi per un attimo gli occhi, attendendo che il mio respiro si regolarizzasse. Per qualche secondo abbandonai il capo all’indietro, poggiando la nuca sul margine dello schienale. Quindi mi stiracchiai allungando le gambe, che mantenni così tese per qualche secondo, sino a che i muscoli non iniziarono a dolere, così annunciandomi il subentrante arrivo di un crampo. Al quel punto mi sollevai, sistemandomi a sedere con la necessaria buona creanza che la sacralità del luogo richiedeva.
Aprii gli occhi. E la vidi. Era seduta proprio a fianco a me.
Quella signora mi guardava a sua volta. Era sicuramente avanti con gli anni; ma aveva un volto straordinariamente chiaro, levigato, su cui spiccavano due gote rosse che la facevano assomigliare ad una bambola vintage. A contrasto di quel volto da bambina, le sue mani erano invece percorse da un reticolo di rughe profonde e irregolari. I capelli, neri, lasciavano intravedere alla base una nuvoletta di ricrescita candida. Erano legati sulla nuca; a sua volta coperta con un velo di pizzo nero. Lateralmente al volto scendeva una veletta semitrasparente, anch’essa di tessuto nero, avvolta su sé stessa e agganciata con un ferretto alla chioma della tempia. Appena alla base del collo spiccava una collana di perle di foggia semplice; mentre nessun orecchino ornava i lunghissimi lobi delle orecchie.
La signora sedeva composta, poggiando con regalità il dorso sullo schienale della panca. Era sicuramente una donna di alto lignaggio; un’autentica aristocratica.
Mi scrutava fissa; il che mi mise decisamente in imbarazzo. Per vincere il quale, decisi di salutarla per primo.
“Buongiorno” le feci.
“Certo che non lo è. Lo vedo da sola. Guardi che gliel’ho detto come frase di cortesia. nella accezione francese: mio signore come monsieur. Mon-sieur …Ha compreso?” rispose guardandomi con una certa aria di altezzosità e rimproverandomi con lo sguardo come se fossi uno scolaretto disattento.
Gli istanti di silenzio che seguirono, potevano essere rotti solo nella maniera più stupida possibile. E così feci. Usando la scontatissima, banalissima, ridicola frase: “Visto che tempaccio, eh…?”
Restò in silenzio; ma dal momento che continuava a guardarmi per spezzare quel silenzio imbarazzante ripresi a parlarle: “Mi signora, ella è barese… è di queste parti…? Cioè… è della Città Vecchia…volevo dire…”
“Ah, sì? E cosa l’ha spinta a tornare?”.
“Sono venuta a trovare mia figlia Bona”.
“Sua figlia vive a Bari, dunque.”
“In verità mia figlia… viveva a Bari… Ora ci è sepolta.”
Quella frase ebbe in me l’effetto di una colata di cubetti di ghiaccio versata giù per il collo. Restai in attonito silenzio per un po’. Quindi, quando ridetti fiato alla voce, non riuscii a dire altro che “Mi spiace… Non potevo immaginare…”
“Giusto, mia signora. È che troppo spesso, percorrendo il tragitto che va dalla nascita alla morte, strada facendo ce lo scordiamo. E soffriamo quando ci viene rammentato dal Fato con la perdita di qualcuno a cui vogliamo bene”.
“Ha proprio ragione, monsignore” disse soavemente.
“A Bari ci venni che avevo trent’anni. E ci sono rimasta parecchio; per quanto dopo il matrimonio di mia figlia iniziai ad andare su e giù da Napoli. Ma ogni volta mettevo piede qui… che bello che era. Che gente meravigliosa. Quanto mi sono stati vicini… Anche quando le mie cose non andarono più bene come avrei voluto. Sa, monsignore… nella mia vita ho sofferto tanto. Tantissimo. Non ho avuto una vita facile. Ma quando venivo qui a Bari le mie pene si addolcivano, mi tornava voglia di vivere, di realizzare, di fare qualcosa di grande per questa città.”
Replicai con entusiasmo: “Non immagina quanto condivido quello che mi sta dicendo, mia signora. Io stesso, per tanti anni sono stato lontano da questa città, per lavoro. E le assicuro che è stata un’autentica sofferenza per... A proposito, Lei di cosa si occupa… o comunque si occupava? Poco fa mi parlava di produzione, di realizzazioni… Era forse una imprenditrice?”.
“Una specie… diciamo pure così”
“Se non le va di parlarmene, tranquilla; fa lo stesso per me…”
“No, no. Anzi. Mi fa piacere ricordare quei tempi. Vede, come le accennavo… non ho avuto una vita familiare tranquilla. Soprattutto non ho avuto dei parenti leali ed affidabili; in particolar modo dalla parte di mio marito. Si chiamava Gian Galeazzo Maria Sforza”. Si interruppe per un attimo, dando sfogo ad una risatina di scherno. Riprese: “Era un settentrionale… carattere difficile. Lo sposai a Napoli. Un matrimonio che fece epoca… Da lui ebbi quattro figli: Francesco, Bona, Ippolita e la povera Bianca che morì all'età di 3 anni.”. La sua espressione divenne ad un tratto triste ed assorta; e qualcosa di liquido per un istante luccicò nei suoi occhi.
Innanzitutto feci in modo che questi coltivassero sempre di più l’arte del commercio. E che diamine; essere nati con la fortuna di vivere davanti al mare più trafficato del Mediterraneo e non sfruttarne le potenzialità. Non era concepibile. Con me cambiò tutto. E a sostegno dell’attività mercantile, misi su alcune industrie. E migliorai i servizi ed i trasporti. Non solo. Ripristinai il molo foraneo, ristrutturai il castello. E volli che i bambini ricevessero una istruzione completa, oltre che imparare il mestiere per portare il tozzo di pane a casa. Lo sa, caro monsignore, che convinsi i Gesuiti della chiesa qui di fianco ed i priori di altri conventi a mettere almeno due frati a disposizione della popolazione con il compito di fare scuola ai cittadini? E poi, con uno scrittore mio amico di Modugno, Amedeo Cornale, ci mettemmo a stampare libri. Ma ci pensa, monsignore… Stampare libri. Qui a Bari.”
“In tutta sincerità quel nome non mi dice nulla: Ma…sa… come le dicevo, signora, è da tempo che manco da Bari. Si vede che mi è sfuggito…”
“Di certo… non avevo tutti dalla mia parte. A parecchi non piacevo. È nella natura delle cose. E qualche volta hanno anche avuto anche ragione a criticarmi. Come quando Giosuè De Ruggiero, che era uno dei miei collaboratori più fidati, facendo la cresta sui conti acquistò un bel po’ di terreni dalle parti di Binetto. Ed io non me ne ero accorta. Ma chi non fa, non sbaglia; vero monsignore?”
“Non fa una grinza, mia signora!”
“Comunque, lavorando sodo, riuscii a mettere su una grande dote per mia figlia Bona. Bellissima com’era, veniva corteggiata da mezzo mondo. Alla fine sposò Sigismondo: un pezzo grosso polacco. Forse un po’ troppo vecchio per lei: era già vedovo ed aveva cinquantun anni quando me la portò via. Se ne andarono a vivere a Cracovia. Ma Bona a Bari ci tornava spesso. Eccome se ci tornava. Aveva sangue barese nelle vene. E ne andava fiera. Ecco perché riposa qui. E io sono felice che sia, così”.
Nuovamente i suoi occhi brillarono di lacrime. Ma riprese immediatamente il suo piglio aristocratico.
“Or dunque, monsignore. Adesso basta con i ricordi. Ora devo proprio lasciarla, È tardi. Devo andare.”
“Mi permetta una domanda, mia signora. Una sola, prima che vada via. Ma Lei… Lei… chi è… Come si chiama?”
“Non gliel’ho detto, monsignore? Mi chiamo Isabella. Sono Isabella d’Aragona.”
Un brivido mi percorse la schiena. E una vertigine scosse le mie viscere facendomi barcollare.
Quando la Signora aveva annunciato la sua intenzione di congedarsi da me, mi ero rispettosamente alzato per poterla salutare. Ma, udito quel nome, ero ripiombato di peso sulla panca. Attonito. Incredulo. Stordito. Non riuscivo a fare altro che fissarla. Fu lei a rompere l’impasse di quel momento di sospensione temporale; attimi in cui non riuscivo a comprendere in quale stramaledetta dimensione del tempo e dello spazio mi stessi ritrovando.
Continuò: “Ora vado. Bona, la mia adorata figlia, mi attende. A rivederla, prima o poi, caro monsignore. E grazie per la bella chiacchierata.”. Quindi mi fece dono di un sorriso la cui luminosità fendette le tenebre della chiesa, rischiarandola a giorno per un attimo.
Si alzò. Si voltò. E procedette lentamente verso l’abside. Piano piano, passo dopo passo. Superato il trono marmoreo dell’Abate Elia- E continuò senza mai fermarsi verso il mausoleo. Proprio quello dove ancor oggi riposa Bona Sforza, Regina di Polonia, Granduchessa di Lituania, Duchessa sovrana di Bari, Signora di Modugno e di Palo del Colle.
Fu allora che una lama di luce penetrò all’interno della Basilica attraverso il rosone della facciata principale.
Aveva cessato di piovere.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2017
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