Valona (ALBANIA), gennaio 1992.
Trascorrevamo
la mattinata nell’Ospedale Civile a lavorare a stretto contatto con i colleghi
del posto. Dove ognuno di noi, a seconda della propria specializzazione,
operava nel reparto di competenza.
A
me toccarono Pronto Soccorso, Chirurgia, Centro Ustionati e Ginecologia. Niente
male, come impegno. Ma ero giovane ed entusiasta, per cui non sentivo né
scoramento né fatica.
Dopo
di che, se non capitava di restare bloccati per l’arrivo di qualche urgenza,
nel pomeriggio ci recavamo a prestare la nostra opera in un Poliambulatorio
pubblico allocato a due passi da un vecchio Teatro ormai in disuso, sul viale
principale che conduceva al porto.
Era
durante il tragitto tra una sede e l’altra che potevamo respirare l’aria di una
città capoluogo di una provincia meridionale di una nazione che sino a qualche
mese prima gli italiani avevo intravisto al massimo sugli atlanti di geografia.
E
di cui giusto noi baresi avevamo prova della esistenza; dal momento che ogni domenica
pomeriggio, poco prima di attaccare “Tutto il Calcio Minuto per Minuto”,
annunciato da una roboante brano di musica classica, si diffondeva dalla nostra
radiolina con tono stentoreo la fatidica frase “Qui radio Tirana”.
Tutto
quel che lì ascoltavamo e, soprattutto, vedevamo era per noi assolutamente
inedito, inaudito, insospettabile. Come se fossimo capitati sul set di un film
storico, ambientato non meno di una settantina di anni addietro.
Il
che mi intrigava non poco. Tanta era la mia eccitazione di conoscere luoghi,
persone e situazioni così tanto nuove e misteriose.
Per
quanto detto, era ovvio che il momento che maggiormente apprezzavo era quello
dei trasferimenti da un punto all’altro della città. Attraverso il parabrezza
del mio VM 90 scrutavo ogni volto, ogni anfratto, ogni incrocio, ogni
particolare mi scorresse davanti agli occhi. Non staccavo mai gli occhi dal
meraviglioso palcoscenico che, con tutti i suoi interpreti, si animava a pochi
metri dai pneumatici del mio automezzo. E non nascondo (ora lo posso ammettere)
che in tantissime occasioni “disertavo” per andarmene in giro da solo.
Disarmato e senza protezione; ma con addosso un inestinguibile desiderio di
conoscenza.
Era
un pomeriggio rigido e nuvoloso
Notai
quel tipo perché, al solito, avevo gli occhi appiccicati al parabrezza. Eravamo
appena usciti dall’Ospedale per dirigerci al Poliambulatorio. Avevamo appena
superato la rotatoria da cui Boulevard Ismaili Qemali prendeva avvio per
dirigersi rettilinea verso il mare.
Lo
vidi lì, sulla destra, nei giardini antistanti la Moschea. Era appena arrivato
da chissà dove e si era fermato a prendere fiato.
Portava
sulle spalle un ovino, ad occhio e croce un agnellone.
Eravamo
in pieno periodo natalizio, per cui mi fece venire alla mente un classico personaggio
del presepe napoletano: uno di quei pastorelli che i bambini dispongono
allineati uno dietro l’altro a formare una fila che dal margine del tavolino
giunge alle soglie dell’ingresso dalla santa capanna. Quelli che persino nella
sacra rappresentazione appaiono dimessi e modesti rispetto ai più aristocratici
e glamour re Magi. I quali sono sempre per lo più raffigurati in sella ad
altrettanto altezzosi dromedari riccamente bardati; e recano omaggi certamente
preziosi, ma contenibili in piccoli scrigni leggeri e comodi da trasportare.
I
poveracci, invece, anche nel presepe appaiono stanchi, perché vanno a piedi e gli
tocca di portare in dono al bambinello sempre qualcosa di pesante, di cui sono inevitabilmente
gravati. Sacchi di cerali, formaggi, polli; o, per l’appunto, un agnello pronto
per sciogliersi nella zuppa calda.
Ecco.
Il biondo figurante balcanico con ovino incorporato sulle spalle sembrava più
un viandante diretto a Nazareth, che un pastore sceso dalle montagne
circostanti. A far cosa, peraltro ?
Che
ci faceva lì, con il suo lanoso e belante bagaglio ?
Era
appena salito in piedi, su una panchina. Cosa aveva in mente di fare ?
Ordinai
al mio conduttore di fermarsi ed accostare non molto distante. Per soddisfare
la mia curiosità, certo; ma anche per intervenire tempestivamente, nel caso l’uomo
avesse messo in atto una qualunque azione che potesse creare problemi ai
passanti.
Tuttavia,
non scesi dal mezzo, limitandomi ad osservarlo a distanza.
Ad
un tratto il tipo iniziò ad urlare. Ma non in maniera isterica. Sembrava piuttosto
emettere una sorta di richiamo.
Numerosi
passanti abbandonarono il loro tragitto e si diressero verso di lui.
Nel
giro di qualche minuto, quindi, una piccola folla si era assiepata sotto
l’improvvisato piedistallo, dalla sommità del quale l’uomo continuava con
veemenza ad articolare ad altra voce frasi gutturali che non riuscivo a
tradurre.
Poi
smise di gridare. E si rivolse sommessamente a ciascuno degli astanti,
assentendo con un dondolante movimento del capo a quanto quelli a loro volta
gli rispondevano.
Quando
ebbe terminato di ascoltarli uno per uno, staccò l’agnellone dalle sue spalle e
lo distese ai propri piedi sulla panchina.
Tirò
fuori dal retro dei calzoni un coltellaccio. E con un movimento fulmineo lo
piantò nel collo dell’animale, che stramazzò senza emettere un belato.
Prese
quindi a scuoiarlo con gesti fermi e decisi degni di un valente chirurgo.
Quindi iniziò a disossarne gli arti con altrettanta maestria, riponendo con
cura i pezzi macellati sulla seduta della panchina.
Le
persone che avevano assistito a quella operazione si avvicinarono all’uomo,
tirarono fuori dalle tasche delle monete e comprarono il taglio che avevano
“prenotato” poco prima.
Assistendo
a quel truculento spettacolo ero ripiombato indietro di parecchie decine di
anni, forse anche secoli. Ai tempi vissuti da coloro i quali ci hanno trasmesso
i loro cromosomi. Ai tempi in cui soddisfare un bisogno naturale come la fame
non poteva richiedere orpelli e misure particolari; perché andava fatto, punto
e baste.
Avevo
appena assistito ad una pratica antichissima. Quella della macellazione
estemporanea. Come dovunque nel mondo era stata esercitata e come in quel
piccolo angolo di mondo si continuava a praticare.
Ero
scosso, certo. Ma non riuscivo a sentirmi né scandalizzato né disgustato da
quanto avevo appena visto. Era così che andava. Da sempre.
L’orologio
che cadenzava la vita di quel popolo, tuttavia, aveva già da tempo cominciato a
roteare le proprie lancette all’impazzata. Tutto sarebbe dovuto cambiare; e avrebbe
dovuto accadere in fretta. In fine dei conti, noi eravamo lì proprio per
questo. Perché tutto cambiasse. In fretta.
Ma
nel frattempo, nulla aveva evocato in me la pur minima esecrazione per il protagonista
di quell’episodio. Che altro non aveva fatto, se non vivere come sino a quel
momento aveva sempre vissuto.
Altro
non aveva fatto che continuare ad essere stesso. Con tutto l’orgoglio di Uomo e
di Popolo che da questo discendeva.
I
compratori si allontanarono in silenzio, lasciando tutto solo il pastore; il
quale ripulì accuratamente l’improvvisato bancone, infilò l’incasso in tasca,
nettò la lama insanguinata strisciandola sulla coscia dei pantaloni.
E
si avviò nella direzione da cui era arrivato.
Verso
le montagne circostanti.
Quelle
da cui era sceso.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2020
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