Chimoio (MOZAMBICO), gennaio 1993.
Inverosimile
metterci piede e non restarne sedotti a vita.
Impossibile,
ogni sera, provare a prendere sonno senza rievocare almeno un fotogramma di
quanto si è visto, annusato, toccato, ascoltato lì dove l’orizzonte, da qualunque
punto lo si osservi, è sempre in grandangolo.
Lì
dove, quando ti stendi di notte ad osservare il cielo, hai l’impressione che un
gigante dispettoso abbia preso le stelle così come le avevi sempre viste, le
abbia infilate in un bussolotto per il gioco dei dadi e le abbia rovesciate su
quel nerissimo tappeto dopo averle rimescolate senza criterio.
Lì
dove albe e tramonti, piogge e venti, animali e persone si sono rifiutate di
scendere dall’Eden da dove fummo tutti scacciati. E così continuano a
ricordarci come era quel che abbiamo perduto.
Africa.
Quell’Africa.
Quella
che ho impressa a fuoco nei miei ricordi non è certamente quella dei villaggi
turistici per tamarri in luna di miele esotica.
È
quella “vera”: quella delle savane, come anche delle città caotiche di traffico.
Quella
delle montagne imbiancate di neve su cui un branco di elefanti si muove in fila
e, da lontano, appaiono come una processione di formiche impegnate a
trasportare briciole.
Quella
dove sua maestà La Morte cammina sempre al tuo fianco, ti accompagna ad ogni
passo. Così da prenderti quando vuole, a suo piacimento; anche se solo vai a
raccogliere acqua ad un fiume o cogli un frutto dall’albero. Perché il
coccodrillo o il mamba che ti aspettano sono autentici, reali.
Veri
come l’Africa. Quell’Africa.
In
Mozambico ci arrivai nel periodo natalizio del 1993, in una regione a ridosso del
confine con lo Zimbabwe.
Ricordo
che quando percorsi in auto i circa duecento chilometri che dall’aeroporto di
Beira portavano alla ubicazione in cui avrei vissuto nei mesi successivi, ebbi
l’impressione di trovarmi nel bel mezzo di un documentario. Di quelli che
passavano in RAI negli orari di minor ascolto; ma che io non perdevo mai,
ripromettendo a me stesso che in quei posti di cui vedevo scorrere nelle
immagini prima o poi ci avrei messo piede. Ed ero, lì. Promessa mantenuta, a me
stesso.
Ero
in Africa. Quell’Africa.
Quella
in cui tutto, strade, case, alberi, animali, persone è inevitabilmente coperto
da una sottilissima polvere color rosso ruggine. Che è dovunque e ti entra
dovunque, per quante docce ci si possa fare. Quella che continui a sputare, tossendola,
ancora per due, tre, quattro mesi dopo essere tornato in Italia.
Quanta
ne ho presa di quella polvere muovendomi nelle strade attorno a Località
Antenne, dov’era stato impiantato l’Ospedale campale in cui lavoravo come
chirurgo.
Una
volta entrata nel naso e nella bocca si impastava con la saliva a formare una
specie di ruvida fanghiglia difficile e dolorosa da espettorare. Per cui, per
evitarlo, bisognava avere sempre le fauci umide. Le borracce non bastavano mai.
Ecco
perché ci fermammo lì, quel pomeriggio.
Stavamo
rientrando in accampamento dall’Ospedale cittadino della città di Chimoio, a
cui avevo assicurato una congrua fornitura di presìdi medico-chirurgici. Sapevo
che le scorte su cui i colleghi potevano contare erano alquanto deficitarie e
avevo deciso di offrire loro un po’ di quanto disponevo, in vista
dell’imminente arrivo di ulteriori rifornimenti dall’Italia
Eravamo
ormai giunti alla periferia del centro cittadino, quando, proprio dove le
ultime case erano contigue con l’inizio della savana, un cartello attirò la
nostra attenzione. Era di legno, a forma di freccia; ma soprattutto riportava
una scritta in lingua portoghese per noi tutti decisamente ammaliante: “Cerveja fresca com aperitivos”. Cioè “Birra fresca con stuzzichini”.
Nella
mia mente prese forma un ologramma: c’erano un piatto colmo di cozze nere, le
cui valve socchiuse sublimavano il concetto della seduzione carnale invitanti
aperti. E poi, un piatto con tanti tocchetti di provolone semi piccante ed un
altro pieno di panzerottini croccanti. Ma soprattutto una fila di Peroni da 33
ml che trasudavano brina ghiacciata lungo il vetro, già stappate e pronte ad
essere baciate.
Ricordate
il film in cui Totò, trascinandosi esausto nel deserto incrociava una serie di
miraggi, alla cui scomparsa emetteva l’imprecazione “Maledetto questo sole
africano !”
Ebbene,
fu quella la mia stessa reazione quando mi resi conto che non ero seduto sul
muretto del Lungomare di Bari all’altezza dell’arco che porta alla Basilica di
San Nicola; ma che avevo avuto solo una fantastica allucinazione.
Io,
invece, proprio lì. Davanti ad un chioschetto mozambicano, interamente coperto
di polvere rossa, che mi era ormai entrata dovunque, nella gola come nei più
reconditi recessi corporei.
Se
non cozze e panzerottini, quantomeno aveva della birra fresca. Madonna Peroni
avrebbe compreso e perdonato il mio tradimento, comunque motivato da un
innegabile stato di necessità.
Ci
muovemmo, dunque, verso la costruzione in legno presuntuosamente gabellata come
bar.
Era
situata immediatamente dietro un frondoso baobab, ai piedi dei quali alcuni
ragazzi conversavano tra loro con svogliata indolenza.
Il
sentiero che conduceva all’esercizio commerciale passava tra il grande albero
ed un montagnozzo di terra ocra a forma di piramide alto un metro e mezzo.
Il
barista era gentile e sorridente. E soprattutto sagace, dal momento che nemmeno
fu necessario che aprissimo bocca per ordinare, che già aveva tirato fuori dal
frigo un congruo numero di bottiglie di birra. Sulle quali ci avventammo senza
ritegno.
Terminato
il primo giro, a qualcuno di noi venne in mente di formulare al banconista una
precisa comanda: “Aperitivos, por favor…”.
Eravamo giustamente curiosi di conoscere quali fossero i pubblicizzati
stuzzichini della casa.
Il
nostro anfitrione non se lo fece ripetere due volte e pose sul bancone alcuni
bastoncini legnosi. Uno per ciascuno di noi.
Erano
lunghi una quindicina di centimetri ed assomigliavano a quelli che di
liquirizia che si trovano spesso nei boccacci in vetro delle erboristerie. Ci
guardammo interrogativamente: che ma avremmo dovuto farci ? Attirai
l’attenzione del barista e simulai il gesto di intingerli nel collo della
bottiglia di birra: era forse così che andavano consumati ?
Il
mio interlocutore mi guardò con riprovazione; ero evidentemente assai lontano
dalla verità.
Con
un gesto della mano lo invitai a mostrarci lui come dovessimo consumare
quell’originale aperitivo.
Lo
fece. E da quel momento non ce lo scordammo più.
Stappo’
una birra per se stesso, quindi uscì dal bancone con in mano uno di quei
rametti.
Si
recò vicino la montagnetta di terra che era sotto il baobab. Con i denti staccò
via un pezzo di corteccia del rametto, lasciando a vista il midollo. Infilò
quel segmento scoperto direttamente nel montagnozzo. Ce lo tenne un po’. Quindi
lo estrasse lentamente da quell’ammasso di terra: sulla superficie del midollo,
evidentemente assai zuccherina, si erano
depositate centinaia di formiche rosse, grandi e brulicanti. Con un gesto
deciso si introdusse il rametto in bocca e poi lo sfilò perfettamente intonso.
Le formiche erano rimaste tutte intrappolate nelle sue fauci. Quindi ingollò
una lunga sorsata di birra.
Ci
aveva mostrato praticamente in cosa consistessero i prelibati stuzzichini della
casa.
Quando
rientrò dietro il bancone restituimmo con dignitoso diniego i nostri ramettini.
Ordinammo un secondo giro di birre. E andammo via.
Riprendemmo
il cammino.
Accovacciato
con la testa poggiata al finestrino, ripresi a vagheggiare.
Nell’ologramma
ritrovai tutto: c’erano le cozze, il provolone ed un piatto colmo di
panzerottini croccanti.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2020
-------------------------------
Nessun commento:
Posta un commento