18 marzo, 2020

APERICENA BRULICANTE.

 


Chimoio (MOZAMBICO), gennaio 1993.

 Africa. Africa.

Inverosimile metterci piede e non restarne sedotti a vita.

Impossibile, ogni sera, provare a prendere sonno senza rievocare almeno un fotogramma di quanto si è visto, annusato, toccato, ascoltato lì dove l’orizzonte, da qualunque punto lo si osservi, è sempre in grandangolo.

Lì dove, quando ti stendi di notte ad osservare il cielo, hai l’impressione che un gigante dispettoso abbia preso le stelle così come le avevi sempre viste, le abbia infilate in un bussolotto per il gioco dei dadi e le abbia rovesciate su quel nerissimo tappeto dopo averle rimescolate senza criterio.

Lì dove albe e tramonti, piogge e venti, animali e persone si sono rifiutate di scendere dall’Eden da dove fummo tutti scacciati. E così continuano a ricordarci come era quel che abbiamo perduto.

Africa. Quell’Africa.

Quella che ho impressa a fuoco nei miei ricordi non è certamente quella dei villaggi turistici per tamarri in luna di miele esotica.

È quella “vera”: quella delle savane, come anche delle città caotiche di traffico.

Quella delle montagne imbiancate di neve su cui un branco di elefanti si muove in fila e, da lontano, appaiono come una processione di formiche impegnate a trasportare briciole.

Quella dove sua maestà La Morte cammina sempre al tuo fianco, ti accompagna ad ogni passo. Così da prenderti quando vuole, a suo piacimento; anche se solo vai a raccogliere acqua ad un fiume o cogli un frutto dall’albero. Perché il coccodrillo o il mamba che ti aspettano sono autentici, reali.

Veri come l’Africa. Quell’Africa.

In Mozambico ci arrivai nel periodo natalizio del 1993, in una regione a ridosso del confine con lo Zimbabwe.

Ricordo che quando percorsi in auto i circa duecento chilometri che dall’aeroporto di Beira portavano alla ubicazione in cui avrei vissuto nei mesi successivi, ebbi l’impressione di trovarmi nel bel mezzo di un documentario. Di quelli che passavano in RAI negli orari di minor ascolto; ma che io non perdevo mai, ripromettendo a me stesso che in quei posti di cui vedevo scorrere nelle immagini prima o poi ci avrei messo piede. Ed ero, lì. Promessa mantenuta, a me stesso.

Ero in Africa. Quell’Africa.

Quella in cui tutto, strade, case, alberi, animali, persone è inevitabilmente coperto da una sottilissima polvere color rosso ruggine. Che è dovunque e ti entra dovunque, per quante docce ci si possa fare. Quella che continui a sputare, tossendola, ancora per due, tre, quattro mesi dopo essere tornato in Italia.

Quanta ne ho presa di quella polvere muovendomi nelle strade attorno a Località Antenne, dov’era stato impiantato l’Ospedale campale in cui lavoravo come chirurgo.

Una volta entrata nel naso e nella bocca si impastava con la saliva a formare una specie di ruvida fanghiglia difficile e dolorosa da espettorare. Per cui, per evitarlo, bisognava avere sempre le fauci umide. Le borracce non bastavano mai.

Ecco perché ci fermammo lì, quel pomeriggio.

Stavamo rientrando in accampamento dall’Ospedale cittadino della città di Chimoio, a cui avevo assicurato una congrua fornitura di presìdi medico-chirurgici. Sapevo che le scorte su cui i colleghi potevano contare erano alquanto deficitarie e avevo deciso di offrire loro un po’ di quanto disponevo, in vista dell’imminente arrivo di ulteriori rifornimenti dall’Italia

Eravamo ormai giunti alla periferia del centro cittadino, quando, proprio dove le ultime case erano contigue con l’inizio della savana, un cartello attirò la nostra attenzione. Era di legno, a forma di freccia; ma soprattutto riportava una scritta in lingua portoghese per noi tutti decisamente ammaliante: “Cerveja fresca com aperitivos”. Cioè “Birra fresca con stuzzichini”.

Nella mia mente prese forma un ologramma: c’erano un piatto colmo di cozze nere, le cui valve socchiuse sublimavano il concetto della seduzione carnale invitanti aperti. E poi, un piatto con tanti tocchetti di provolone semi piccante ed un altro pieno di panzerottini croccanti. Ma soprattutto una fila di Peroni da 33 ml che trasudavano brina ghiacciata lungo il vetro, già stappate e pronte ad essere baciate.

Ricordate il film in cui Totò, trascinandosi esausto nel deserto incrociava una serie di miraggi, alla cui scomparsa emetteva l’imprecazione “Maledetto questo sole africano !”

Ebbene, fu quella la mia stessa reazione quando mi resi conto che non ero seduto sul muretto del Lungomare di Bari all’altezza dell’arco che porta alla Basilica di San Nicola; ma che avevo avuto solo una fantastica allucinazione.

Io, invece, proprio lì. Davanti ad un chioschetto mozambicano, interamente coperto di polvere rossa, che mi era ormai entrata dovunque, nella gola come nei più reconditi recessi corporei.

Se non cozze e panzerottini, quantomeno aveva della birra fresca. Madonna Peroni avrebbe compreso e perdonato il mio tradimento, comunque motivato da un innegabile stato di necessità.

Ci muovemmo, dunque, verso la costruzione in legno presuntuosamente gabellata come bar.

Era situata immediatamente dietro un frondoso baobab, ai piedi dei quali alcuni ragazzi conversavano tra loro con svogliata indolenza.

Il sentiero che conduceva all’esercizio commerciale passava tra il grande albero ed un montagnozzo di terra ocra a forma di piramide alto un metro e mezzo.

Il barista era gentile e sorridente. E soprattutto sagace, dal momento che nemmeno fu necessario che aprissimo bocca per ordinare, che già aveva tirato fuori dal frigo un congruo numero di bottiglie di birra. Sulle quali ci avventammo senza ritegno.

Terminato il primo giro, a qualcuno di noi venne in mente di formulare al banconista una precisa comanda: “Aperitivos, por favor…”. Eravamo giustamente curiosi di conoscere quali fossero i pubblicizzati stuzzichini della casa.

Il nostro anfitrione non se lo fece ripetere due volte e pose sul bancone alcuni bastoncini legnosi. Uno per ciascuno di noi.

Erano lunghi una quindicina di centimetri ed assomigliavano a quelli che di liquirizia che si trovano spesso nei boccacci in vetro delle erboristerie. Ci guardammo interrogativamente: che ma avremmo dovuto farci ? Attirai l’attenzione del barista e simulai il gesto di intingerli nel collo della bottiglia di birra: era forse così che andavano consumati ?

Il mio interlocutore mi guardò con riprovazione; ero evidentemente assai lontano dalla verità.

Con un gesto della mano lo invitai a mostrarci lui come dovessimo consumare quell’originale aperitivo.

Lo fece. E da quel momento non ce lo scordammo più.

Stappo’ una birra per se stesso, quindi uscì dal bancone con in mano uno di quei rametti.

Si recò vicino la montagnetta di terra che era sotto il baobab. Con i denti staccò via un pezzo di corteccia del rametto, lasciando a vista il midollo. Infilò quel segmento scoperto direttamente nel montagnozzo. Ce lo tenne un po’. Quindi lo estrasse lentamente da quell’ammasso di terra: sulla superficie del midollo, evidentemente  assai zuccherina, si erano depositate centinaia di formiche rosse, grandi e brulicanti. Con un gesto deciso si introdusse il rametto in bocca e poi lo sfilò perfettamente intonso. Le formiche erano rimaste tutte intrappolate nelle sue fauci. Quindi ingollò una lunga sorsata di birra.

Ci aveva mostrato praticamente in cosa consistessero i prelibati stuzzichini della casa.

Quando rientrò dietro il bancone restituimmo con dignitoso diniego i nostri ramettini. Ordinammo un secondo giro di birre. E andammo via.

Riprendemmo il cammino.

Accovacciato con la testa poggiata al finestrino, ripresi a vagheggiare.

Nell’ologramma ritrovai tutto: c’erano le cozze, il provolone ed un piatto colmo di panzerottini croccanti.

 

FINE

© LERARIO Cosimo, 2020

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