17 marzo, 2020

ITALIAN STYLE. DA APPLAUSI.

 

Camp Bondstill (KOSOVO), gennaio 2007.

 La guerra è la più insulsa, stupida, inutile, atroce delle umane attività.

Su questo non ci sono dubbi.

E, diversamente da quanto comunemente si creda, non piace affatto ai militari. A quelli che la fanno, intendo. A quelli che vengono mandati lontano dai propri luoghi e affetti a misurarsi con l’orrore e con la morte.

Piace molto, invece a due categorie di individui: a quei politici che non riescono ad affrontare i problemi interni alle proprie nazioni se non giocando a “chi ce l’ha più grosso” con i loro colleghi di altri Stati. E poi, naturalmente, a quei militari che sui campi di battaglia ci mandano gli altri. Quelli specialisti nella pratica dell’ ”armiamoci e partite, che poi carriera la faccio io.”

Va così un po’ dovunque e da un bel po’ di tempo: già da quando l’uomo inventò la clava e ne equipaggiò i suoi sodali perché le usassero sui crani dei nemici. Restando egli, opportunamente, al riparo nella caverna. Ovviamente.

Tuttavia, anche nelle attività belliche più efferate un seppur piccolo elemento di positività in realtà esiste. Strano, ma vero. Comunque esiste.

Consiste nella opportunità di lavorare assieme a persone provenienti da svariate nazioni, dotate di diverse culture, portatori di differenti valori. Se non in piena amicizia, quanto meno in buon spirito di “compagnonaggio”, come dicono i francesi.

Il che è davvero entusiasmante e gratificante, lo assicuro. Ma soprattutto, confortante. Ritrovarsi a lavorare e scherzare (mica si combatteva e basta) tutti assieme, accomunati dalla nostalgia di casa e dalla assoluta incapacità di comprendere il senso di quanto ci veniva ordinato di eseguire, era una esperienza intrigante e coinvolgente come poche occorrono nella vita di un uomo.

Sì. Un piccolo aspetto positivo, persino quella guerra insulsa, stupida, inutile ed atroce riusciva ad averlo. Quello, per l’appunto.

Ed io me lo godevo tutto. Già dal primo mattino di ogni giorno, quando al Comando Multinazionale di Belo Polje noi Italiani entravamo in riunione con colleghi Spagnoli, Rumeni, Sloveni ed Ungheresi.

Terminata la quale, ognuno di noi attendeva alle attività della propria branca (la mia, ovviamente era quella sanitaria); per poi ritrovarci “a las cinco de la tarde” (come amava ripetere il vicecomandante spagnolo) per il debriefing che avrebbe sancito i risultati conseguiti nella giornata.

Quel giorno mi posi in viaggio subito dopo aver partecipato al briefing del mattino per raggiungere la base USA di Bondstill, nel cui Ospedale i responsabili  dei servizi sanitari delle varie zone di competenza erano stati convocati per programmare alcune attività.

Gli americani, si sa, adorano le Clinical Conference; ovvero quelle mega riunioni in cui poter parlare tra colleghi reggendo tra le mani tazzone di caffè nero liofilizzato e ciambelle con la glassa odorosa di cannella.

Quelli di stanza al Role 3 - Army Hospital non facevano eccezione. Ad ogni occasione ne indicevano una di riunione scientifica.

E, dopo ore di intenso lavoro, ognuna di esse si concludeva trasformandosi inevitabilmente in un happening  woodstockiano: musica hard rock, effusioni e abbracci compresi.

Questa è proprio la storia di uno di quegli abbracci. Il mio.

Nulla di che: innocente, amichevole, cameratesco come si usa scambiare tra colleghi. Non fosse che il collega americano con cui mi ero ritrovato a scambiare più abbracci e pacche sulle spalle che con gli altri era Rebecca, la rossa e lentigginosa vicedirettrice dell’Ospedale. Nulla di strano.

Così come era assolutamente ordinario e usuale che, di quei momenti di rilassato cameratismo, venissero scattate centinaia di fotografie dai prodi operatori del settore Public Information della base statunitense.

E ancora più consuetudinario era che i file “jpg” di quelle immagini fossero inoltrati in tempo reale a tutti i Comandi internazionali a cui appartenevano le decine di convenuti. Me compreso.

Ragion per cui la mia effige amabilmente avvinghiata alla dolce Rebecca giunse sui computer del mio Comando all’incirca tre ore prima che ci facessi ritorno in auto, avendo dovuto attraversare mezzo Kosovo sotto una fitta coltre nebbiosa.

Comunque, giunsi alla base appena in tempo per partecipare al debriefing pomeridiano.

Parcheggiato il Defender nello spiazzo davanti all’ingresso della Sala Riunioni, notai attraverso la porta a vetri che tutti i membri dello Staff erano già presenti. Poco male, pensai: ero riuscito ad arrivare in perfetto orario. Per cui nessuno avrebbe potuto formulare osservazioni a riguardo.

Spalancai la porta. E trovai che erano tutti in piedi, a formare una sorta di muro umano davanti ai miei occhi. E mi fissavano. Mi fissavano intensamente. Senza profferire parola.

Io mi bloccai sulla soglia, assolutamente stupefatto da tale accoglienza. Non mi mossi di un centimetro, nemmeno per raggiungere la mia postazione riservata.

E quelli continuavano a scrutarmi con espressione enigmatica, impenetrabile.

Finché, da chi sa chi dove alle spalle di quella barriera, non si udì uno stentoreo “E vai… Grande, Cosimo. Sei tutti noi !”

Al che tutti iniziarono ad applaudirmi freneticamente, accompagnando quella ovazione con fischi, berretti lanciati in aria, pacche sulle mie spalle e frasi di giubilo declinate in tutte le lingue disponibili a quel tavolo.

Ero sempre più costernato. Cosa diavolo stava succedendo ?

Ebbi la risposta a questo interrogativo non appena quel muro umano si aprì davanti a me, scoprendo alla mia vista il megaschermo televisivo appeso sull’altro lato della stanza.

Sul quale campeggiava la foto di un ufficiale medico italiano (sì, ero proprio io !) teneramente abbracciato ad una collega statunitense: ovviamente la rossa Rebecca.

Appena era arrivata quella immagine non ci avevano pensato due volte a scaricarla sul maxischermo, così da organizzare per tempo quella goliardica sceneggiata. Adorabili bastardi !

Ovviamente, quella sera dovetti elargire a tutti i colleghi della base non so quanti “giri” di brandy ed altri superalcolici più o meno consentiti dalla legge.

Dopo di che, in nome del più bieco “machismo”, da quel giorno in avanti nei baretti della base non dovetti più pagare nemmeno un caffè. Tutto offerto dai colleghi, per ammirazione e considerazione.

Questo accadde, in quell’inizio d’anno del 2006, in quell’insulso, stupido, inutile, atroce, ma allo stesso tempo fantastico e commovente Teatro Operativo balcanico.

 

FINE

© LERARIO Cosimo, 2020

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