Gondòla (MOZAMBICO), gennaio 1993.
La
nostra attività principale consisteva nel garantire assistenza sanitaria al
contingente italiano, naturalmente. Quindi alle truppe di tutte le altre
nazioni partecipanti a quella missione ONU di mantenimento della pace.
E,
ancora, alla popolazione locale. Non che il Mozambico fosse sprovvisto di
efficienti strutture ospedaliere; tuttavia, erano dislocate esclusivamente nei
centri cittadini. Per cui erano esclusi dalle cure mediche proprio quelli che
ne avevano più necessità: gli abitanti dei più sperduti villaggi addentrati
nella savana. A loro ci pensavamo noi, direttamente a domicilio.
Difatti,
due volte la settimana, mi recavo di buon’ora con un piccolo staff di assistenti
a portare la mia opera professionale in piccoli ambulatori allestititi in
alcune chiese missionarie cristiane.
Il
più lontano di essi rispetto alla nostra base era dislocato in una impervia località
del Distretto di Gondòla, per raggiungere la quale impiegavamo parecchie ore di
fuoristrada. Ballonzolati su sentieri di terra battuta e attraversando piccoli
corsi d’acqua, guadando i quali venivamo spesso attorniati da festanti coccodrilli
a cui, chiusi nella nostra candida ambulanza blindata, dovevamo apparire come
una prelibata confezione di carne in scatola. In più di una occasione ci hanno
anche invitato a pranzare con loro, tuttavia abbiamo sempre declinato. Sempre
cortesemente, però.
Quando
arrivavamo alla missione trovavamo ad attenderci decine, centinaia di persone.
Uomini, donne, bambini. Arrivavano lì a piedi, alcuni anche uno o due giorni
prima del nostro arrivo. E ci aspettavano ansiosamente.
L’aspetto
più doloroso era che molti di loro non facevo in tempo a visitarli; perché
dovevamo obbligatoriamente lasciare quel posto almeno un paio d’ore prima che
calasse il sole, non dovendo mai rientrare in base quando fosse già calato il buio.
Per motivi di sicurezza.
Per
questo non mi risparmiavo, impiegando ogni minuto disponibile a visitarli, operarli,
medicarli, confortarli. Anche usando contemporaneamente due o tre lettini, in
stanze diverse e salando dall’uno all’altro in frenetica successione; come in
una grottesca catena di montaggio. Ma dovevo fare così: volevo curarne il
massimo numero possibile prima di andare via; perché chi fosse stato escluso,
avrebbe dovuto attendere un altro settimana prima di vedermi tornare.
Il
che purtroppo, accadeva regolarmente. Erano davvero tanti. Troppi.
E
le ore a nostra disposizione sempre troppo poche.
Quando,
andando via, incrociavo gli sguardi di chi non ero riuscito a visitare, mi si
riempivano gli occhi di lacrime.
A
condurre quel centro missionario era una donna di pelle bianca, che credo fosse
di origine portoghese. Probabilmente una suora, dal momento che calzava
costantemente un velo sulla testa. Era assai minuta e di bassa statura: non
superava il metro e cinquanta centimetri. Il suo volto era interamente solcato da
una ragnatela di rughe profonde ed avvizzite. I pochi capelli che si lasciavano
intravedere sotto il velo erano candidi e sfibrati.
Aveva
uno sguardo irrimediabilmente spento, mai attraversato da un barlume di gioia.
Sembrava avesse assorbito tutto il dolore del mondo dentro di sé. E che continuasse
a farlo portandone il carico sopra quelle sue esili spalle incurvate.
La
bocca sottilissima, appariva come una linea quasi invisibile. Sembrava una
piccola crepa mimetizzata con le centinaia di rughe che la circondavano.
Era
sempre serrata, come se non volesse, aprendola, fare uscire attraverso essa il carico
di pene che custodiva dentro di sé. Non la socchiudeva mai. Nemmeno per
respirare.
Non
solo non l’avevo mai vista sorridere; ma nemmeno ne avevo mai ascoltato la
voce. Si esprimeva a gesti, perentori e decisi. Bastava che alzasse un braccio
perché le centinaia di presenti si zittissero immediatamente; bambini compresi,
che si attaccavano voracemente alle mammelle svuotate e penzolanti delle loro
madri.
Con
un altro movimento della mano riusciva ad indicarci dove dovessimo scaricare i
farmaci, dove cambiarci e dove effettuare le visite. Così come, con
impercettibili movimenti degli occhi, regolava il flusso dei pazienti nelle
varie stanzette.
Quella
mattina era stata particolarmente dura. Molto dura.
Tra
i tanti, avevo trattato un caso assolutamente fuori dall’ordinario per chi
pratica la medicina a queste nostre latitudini; ma purtroppo assai
riscontrabile da quelle parti. Una patologia di cui avevo solo letto qualcosa
nei testi di Medicina Tropicale, ma che ovviamente non avevo mai constatato di
persona. Sino a quel giorno.
Avevo
appena inciso una tumefazione di notevoli dimensioni che occupava quasi
interamente la gamba di una ragazza, convinto che dovesse trattarsi di un
grosso ascesso. Mi aspettavo, pertanto, di vedere defluire dalla ferita del
materiale purulento. Invece, ne uscì qualcosa di inaspettato ed inverosimile.
Dalla gamba di quella piccola donna vennero fuori migliaia, decine di migliaia,
centinaia di migliaia di vermetti bianchi lunghi non più lunghi di un’unghia. Di
cui, rapidamente, il pavimento di quella stanzetta fu interamente ricoperto.
Fu
troppo persino per me, per i miei nervi ed il mio stomaco. Ne avevo viste e
vissute di situazioni truculente; ma quella era decisamente troppo. Troppo.
Persino per me.
Ciononostante
terminai il mio intervento. Dopo di che lasciai la paziente alle cure della
crocerossina che mi assisteva e, barcollando per la nausea, uscì dalla stanza.
Avevo bisogno di una boccata d’aria pura.
Raggiunsi
un piccolo giardino interno alla struttura, al centro del quale si erigeva un
pergolato con dei sedili in pietra. Mi stesi su uno di essi, respirai
profondamente ed alzai lo sguardo verso il cielo.
Lo
vidi. Proprio sopra la mia faccia, appeso ad un alto cespuglio frondoso pendeva
invitante un pomo di colore verde. Aveva le dimensioni di una grossa arancia,
ma di forma allungata, ovoidale.
Mi
era già capitato di averne mangiati, di quei frutti. Al loro interno avevano
una polpa giallognola, con tanti semini nerastri. Anche da maturi avevano un
sapore un po’ acidulo, ma erano molto dissetanti.
Non
riuscii a resistere. Mi sollevai, lo staccai dal ramo, lo tagliai in due con il
mio coltello tattico e, chiudendo gli occhi per la goduria, iniziai a
succhiarne la polpa.
Sentii
un impercettibile rumore. Spalancai gli occhi e la vidi. La piccola suora era
davanti a me e mi stava osservando, proprio mentre avevo praticamente in bocca
la metà del frutto.
La
sua espressione era imperscrutabile. Non profferì suono alcuno. Mi guardo con
occhi di ghiaccio; quindi, silenziosamente come era giunta, si girò su se
stessa e rientrò nella missione.
Me
ne resi conto solo allora di quale tremenda figuraccia avessi fatto. Passi
concedermi qualche minuto di relax; ma addirittura rubare dalla pianta un
frutto…
Effettivamente
avrei dovuto chiedere il permesso per poterlo fare. Solo che , sconvolto
com’ero dal caso della ragazza, non ci avevo proprio pensato. La sua
riprovazione era, pertanto, più che giustificata.
Ripresi
il mio lavoro con lo stesso umore che può avere un cane dopo essere stato bastonato.
Sin a che giunse l’ora in cui avremmo dovuto mollare tutto e rientrare a
Chimoio.
Ricaricammo
sull’ambulanza strumentario e suppellettili; e vi prendemmo posto, pronti a
partire.
Non
avevamo nemmeno messo in moto che la suora ricomparve. Proprio davanti
all’automezzo.
Si
mosse di lato e raggiunse lo sportello della poltrona su cui ero seduto.
Sempre
in assoluto silenzio, attraverso il finestrino mi porse un fagotto di tela
bianca.
Era
colmo di frutti. Proprio quei frutti. Io ne avevo rubato uno. E lei me li stava
donando. A decine.
La
guardai intensamente negli occhi, senza a mia volta pronunciare alcuna parola.
E
per la prima e ultima volta, quella sera la vidi sorridere. Per un attimo infinitesimale
di tempo. Solo per un attimo.
Ma
accadde.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2020
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