19 marzo, 2020

LA DOLCEZZA DEL FRUTTO RUBATO.

 

 

Gondòla (MOZAMBICO), gennaio 1993.

 Di certo non ci annoiavamo, lì nel Reparto di Sanità Campale.

La nostra attività principale consisteva nel garantire assistenza sanitaria al contingente italiano, naturalmente. Quindi alle truppe di tutte le altre nazioni partecipanti a quella missione ONU di mantenimento della pace.

E, ancora, alla popolazione locale. Non che il Mozambico fosse sprovvisto di efficienti strutture ospedaliere; tuttavia, erano dislocate esclusivamente nei centri cittadini. Per cui erano esclusi dalle cure mediche proprio quelli che ne avevano più necessità: gli abitanti dei più sperduti villaggi addentrati nella savana. A loro ci pensavamo noi, direttamente a domicilio.

Difatti, due volte la settimana, mi recavo di buon’ora con un piccolo staff di assistenti a portare la mia opera professionale in piccoli ambulatori allestititi in alcune chiese missionarie cristiane.

Il più lontano di essi rispetto alla nostra base era dislocato in una impervia località del Distretto di Gondòla, per raggiungere la quale impiegavamo parecchie ore di fuoristrada. Ballonzolati su sentieri di terra battuta e attraversando piccoli corsi d’acqua, guadando i quali venivamo spesso attorniati da festanti coccodrilli a cui, chiusi nella nostra candida ambulanza blindata, dovevamo apparire come una prelibata confezione di carne in scatola. In più di una occasione ci hanno anche invitato a pranzare con loro, tuttavia abbiamo sempre declinato. Sempre cortesemente, però.

Quando arrivavamo alla missione trovavamo ad attenderci decine, centinaia di persone. Uomini, donne, bambini. Arrivavano lì a piedi, alcuni anche uno o due giorni prima del nostro arrivo. E ci aspettavano ansiosamente.

L’aspetto più doloroso era che molti di loro non facevo in tempo a visitarli; perché dovevamo obbligatoriamente lasciare quel posto almeno un paio d’ore prima che calasse il sole, non dovendo mai rientrare in base quando fosse già calato il buio. Per motivi di sicurezza.

Per questo non mi risparmiavo, impiegando ogni minuto disponibile a visitarli, operarli, medicarli, confortarli. Anche usando contemporaneamente due o tre lettini, in stanze diverse e salando dall’uno all’altro in frenetica successione; come in una grottesca catena di montaggio. Ma dovevo fare così: volevo curarne il massimo numero possibile prima di andare via; perché chi fosse stato escluso, avrebbe dovuto attendere un altro settimana prima di vedermi tornare.

Il che purtroppo, accadeva regolarmente. Erano davvero tanti. Troppi.

E le ore a nostra disposizione sempre troppo poche.

Quando, andando via, incrociavo gli sguardi di chi non ero riuscito a visitare, mi si riempivano gli occhi di lacrime.

A condurre quel centro missionario era una donna di pelle bianca, che credo fosse di origine portoghese. Probabilmente una suora, dal momento che calzava costantemente un velo sulla testa. Era assai minuta e di bassa statura: non superava il metro e cinquanta centimetri. Il suo volto era interamente solcato da una ragnatela di rughe profonde ed avvizzite. I pochi capelli che si lasciavano intravedere sotto il velo erano candidi e sfibrati.

Aveva uno sguardo irrimediabilmente spento, mai attraversato da un barlume di gioia. Sembrava avesse assorbito tutto il dolore del mondo dentro di sé. E che continuasse a farlo portandone il carico sopra quelle sue esili spalle incurvate.

La bocca sottilissima, appariva come una linea quasi invisibile. Sembrava una piccola crepa mimetizzata con le centinaia di rughe che la circondavano.

Era sempre serrata, come se non volesse, aprendola, fare uscire attraverso essa il carico di pene che custodiva dentro di sé. Non la socchiudeva mai. Nemmeno per respirare.

Non solo non l’avevo mai vista sorridere; ma nemmeno ne avevo mai ascoltato la voce. Si esprimeva a gesti, perentori e decisi. Bastava che alzasse un braccio perché le centinaia di presenti si zittissero immediatamente; bambini compresi, che si attaccavano voracemente alle mammelle svuotate e penzolanti delle loro madri.

Con un altro movimento della mano riusciva ad indicarci dove dovessimo scaricare i farmaci, dove cambiarci e dove effettuare le visite. Così come, con impercettibili movimenti degli occhi, regolava il flusso dei pazienti nelle varie stanzette.

Quella mattina era stata particolarmente dura. Molto dura.

Tra i tanti, avevo trattato un caso assolutamente fuori dall’ordinario per chi pratica la medicina a queste nostre latitudini; ma purtroppo assai riscontrabile da quelle parti. Una patologia di cui avevo solo letto qualcosa nei testi di Medicina Tropicale, ma che ovviamente non avevo mai constatato di persona. Sino a quel giorno.

Avevo appena inciso una tumefazione di notevoli dimensioni che occupava quasi interamente la gamba di una ragazza, convinto che dovesse trattarsi di un grosso ascesso. Mi aspettavo, pertanto, di vedere defluire dalla ferita del materiale purulento. Invece, ne uscì qualcosa di inaspettato ed inverosimile. Dalla gamba di quella piccola donna vennero fuori migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di vermetti bianchi lunghi non più lunghi di un’unghia. Di cui, rapidamente, il pavimento di quella stanzetta fu interamente ricoperto.

Fu troppo persino per me, per i miei nervi ed il mio stomaco. Ne avevo viste e vissute di situazioni truculente; ma quella era decisamente troppo. Troppo. Persino per me.

Ciononostante terminai il mio intervento. Dopo di che lasciai la paziente alle cure della crocerossina che mi assisteva e, barcollando per la nausea, uscì dalla stanza. Avevo bisogno di una boccata d’aria pura.

Raggiunsi un piccolo giardino interno alla struttura, al centro del quale si erigeva un pergolato con dei sedili in pietra. Mi stesi su uno di essi, respirai profondamente ed alzai lo sguardo verso il cielo.

Lo vidi. Proprio sopra la mia faccia, appeso ad un alto cespuglio frondoso pendeva invitante un pomo di colore verde. Aveva le dimensioni di una grossa arancia, ma di forma allungata, ovoidale.

Mi era già capitato di averne mangiati, di quei frutti. Al loro interno avevano una polpa giallognola, con tanti semini nerastri. Anche da maturi avevano un sapore un po’ acidulo, ma erano molto dissetanti.

Non riuscii a resistere. Mi sollevai, lo staccai dal ramo, lo tagliai in due con il mio coltello tattico e, chiudendo gli occhi per la goduria, iniziai a succhiarne la polpa.

Sentii un impercettibile rumore. Spalancai gli occhi e la vidi. La piccola suora era davanti a me e mi stava osservando, proprio mentre avevo praticamente in bocca la metà del frutto.

La sua espressione era imperscrutabile. Non profferì suono alcuno. Mi guardo con occhi di ghiaccio; quindi, silenziosamente come era giunta, si girò su se stessa e rientrò nella missione.

Me ne resi conto solo allora di quale tremenda figuraccia avessi fatto. Passi concedermi qualche minuto di relax; ma addirittura rubare dalla pianta un frutto…

Effettivamente avrei dovuto chiedere il permesso per poterlo fare. Solo che , sconvolto com’ero dal caso della ragazza, non ci avevo proprio pensato. La sua riprovazione era, pertanto, più che giustificata.

Ripresi il mio lavoro con lo stesso umore che può avere un cane dopo essere stato bastonato. Sin a che giunse l’ora in cui avremmo dovuto mollare tutto e rientrare a Chimoio.

Ricaricammo sull’ambulanza strumentario e suppellettili; e vi prendemmo posto, pronti a partire.

Non avevamo nemmeno messo in moto che la suora ricomparve. Proprio davanti all’automezzo.

Si mosse di lato e raggiunse lo sportello della poltrona su cui ero seduto.

Sempre in assoluto silenzio, attraverso il finestrino mi porse un fagotto di tela bianca.

Era colmo di frutti. Proprio quei frutti. Io ne avevo rubato uno. E lei me li stava donando. A decine.

La guardai intensamente negli occhi, senza a mia volta pronunciare alcuna parola.

E per la prima e ultima volta, quella sera la vidi sorridere. Per un attimo infinitesimale di tempo. Solo per un attimo.

Ma accadde.

 

FINE

© LERARIO Cosimo, 2020

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