Ad inizio anno 2022 l'ANCRI (la Associazione che riunisce e rappresenta gli insigniti di onorificenze dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana) mi ha chiesto un articolo sul tema del Tricolore Italiano, da pubblicare sul sito della Agenzia di Stampa AGR. Eccolo qui; scritto "di pancia", senza retorica nazionalista, sotto la spinta della emozione, estrapolato dal magma ribollente dei ricordi di una vita impiegata a servire lo Stato. Da noi e all'estero.
Il Caso (inteso come fortuita e
imprevedibile coincidenza) non esiste.
Lo sostengo da tempo e non ho mai avuto
occasione di ricredermi a riguardo.
Sono così persuaso di questo assioma che in
parecchie circostanze lo faccio sostenere ai personaggi delle mie narrazioni,
sia letterarie che teatrali. Da impunito scrittore, difatti, demando ormai ad
essi l’incarico di fungere di miei portavoce naturali di questa ed altre mie
convinzioni.
Ebbene, oggi ne ho ricevuto l’ennesima
conferma: la casualità non esiste. Difatti mi ritrovo a scrivere queste righe.
Oggi è il 1° gennaio del 2022. È
Capodanno, dunque.
È il giorno in cui, come mi succede ormai da
anni, per me è impossibile svegliarmi senza che la mia memoria vada a
rammentarmi quali e quante volte ho salutato l’inizio del nuovo anno aprendo
gli occhi in una località, in una Nazione, su una branda che non era quella di
casa.
Anzi, che non era nemmeno Italia.
Così accadde il 1992 (ed anche l’anno
seguente 1993) quando ero a Valona in Albania.
Poi nel 1994, nella savana antistante Chimoio,
in Mozambico.
E nel 2007 a Belo Polje, in Kosovo; a due
passi dalle macerie non ancora rimosse della guerra balcanica di fine XX secolo.
In tutte quelle circostanze ero lì con
addosso l’uniforme di ufficiale medico dell’Esercito Italiano.
Il primo giorno dell’anno ero lì. Ci
pensavo, proprio stamattina.
E con diabolica (o se volete mistica, fate
un po’ voi) combinazione, questo pomeriggio mi arriva la telefonata dell’amico
Domenico Garofalo che mi sussurra: “Tu
che hai partecipato a tante missioni fuori dal territorio nazionale…
scriveresti qualcosa sul Tricolore nazionale per noi dell’ANCRI?”
Ed eccomi qua, davanti allo schermo del pc
a rievocare nuovamente quel che già stamane avevo congedato dalla mia mente con
un bel po’ di magone.
Impresa più agevole di quel che possa
apparire, lo stilare queste riflessioni. Perché per me (come per chiunque ci
sia passato o sia tutt’ora impiegato all’estero in attività istituzionale) è
impossibile rievocare quei momenti senza che si materializzi spontaneamente in
mente l’immagine della Bandiera. La nostra. Il Tricolore italiano.
Non foss’altro che per me, così come per
noi tutti, quel benedetto drappo colorato a fasce verticali di colore verde,
bianco e rosso in quei contesti ed in quelle circostanze rappresentava qualcosa
di più che un mero simbolo distintivo di nazionalità.
Detto con un filino di retorica, era la
estremità attaccata a me di un cordone ombelicale lungo migliaia di chilometri:
quello che mi teneva attaccato alla madre Patria.
Soprattutto, era contemporaneamente il
motivo e lo scopo per cui mi ritrovavo a dovermi svegliare lì, proprio lì,
invece che al termine di una nottata di bottiglie stappate e trenini-samba.
La giornata di servizio non poteva che
iniziare onorandolo, quel Tricolore.
Con la Cerimonia dell’alzabandiera, per
l’appunto. Nel corso della quale essere tutti lì a cantare assieme l’inno
nazionale e a salutarne la rituale, cadenzata ascesa sulla sommità del pennone.
Sotto la neve o sferzati da una tempesta
di polvere, inzuppati di pioggia o rosi d’arsura, ogni mattina eravamo lì, a conseguire
quelle eggregore di appartenenza ed intenti che difficilmente avremmo potuto
raggiungere diversamente. Se non al cospetto di quella comune e condivisa
presenza simbolica: la nostra Bandiera.
Quindi, seguiva la sua orgogliosa
ostensione in forma di scudetto applicato sull’uniforme appena sotto la spalla.
In bella vista: così che tutti sapessero chi eravamo e soprattutto da dove
venivamo. Capitava di frequente che, per motivi di sicurezza, rimuovessimo dalla
giubba la striscia tessile con stampigliato il nostro cognome; talvolta,
persino quella con la indicazione della Forza Armata di appartenenza.
Ma lo scudetto tricolore no. Mai !
Dovunque andassimo. Chiunque, amici o nemici, avremmo dovuto incrociare.
Era sempre lì, con noi. Addosso a noi.
Dentro di noi.
Quando lo applicavamo, quel premerne
dolcemente il velcro sulla sagoma di tessuto a cui farlo aderire lo facevamo
come se gli impartissimo una carezza. Di quelle che si danno da genitore, cioè
decisa e dolce allo stesso tempo.
Solo dopo averlo sistemato per bene
uscivamo per andare incontro a fatiche e pericoli.
Lui, lo scudetto bianco-rosso-e-verde
(chissà perché nel linguaggio comune si altera sempre la disposizione dei
colori) veniva con noi, addosso a noi. A quel punto, potevamo affrontare di tutto.
Ecco. Questo era il significato del
tricolore per chi si ritrovava a prestare servizio lontano dal suolo nazionale.
Semplicemente questo.
Il che, se ci pensate, è già parecchio;
anzi, tutto. Tutto.
Se proprio devo chiudere queste
annotazioni con una sequenza di immagini, ebbene lo farò da… quota di volo.
Nel corso del mio periodo di servizio
condotto in Mozambico con l’ONU, ero l’ufficiale medico che si occupava di
trasportare e recuperare infermi e feriti trasportandoli a bordo degli
elicotteri della nostra Cavalleria dell’Aria.
Sorvolavamo ampie zone di territorio della
savana, che sotto i nostri occhi appariva come un omogeneo e un po’ noioso
tappeto vegetale. Ma quando tornavamo alla nostra base, nell’imminenza della
manovra di discesa una immagine ci emozionava tutti, sino alle lacrime.
Sullo spiazzo color terra rossa era
impossibile non distinguerla.
In cima al pennone c’era lei, che sinuosamente
si muoveva appena, come se volesse salutare il nostro rientro e nel contempo
rassicurarci sulla buona riuscita dell’atterraggio.
Era lei: la nostra Bandiera.
Lì era casa.
FINE
© LERARIO Cosimo, 2022
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