venerdì 31 dicembre 2021

Abbagli di gioventù (scusandomi con Eduardo…)

 

Fu solo quando me lo ritrovai davanti che iniziai a comprendere.

Mentre ero seduto per terra, in prima fila, a qualche centimetro dai suoi piedi, che sedie disponibili non ce n’erano più.

Quei piedi appartenevano al Maestro Eduardo De Filippo.

Ero di fronte a lui. Stavo respirando la sua stessa aria. Abbiamo reciprocamente incrociato i nostri sguardi. Abbiamo calpestato il medesimo pavimento. Assieme a lui ci siamo mossi nello stesso spazio, scansando gli angoli dei medesimi tavoli colmi di libri. Ci siamo stretti la mano.

E quando lo ascoltai iniziai a comprendere, a realizzare che stavo partecipando a qualcosa che si sarebbe rivelato epocale per me. Difatti, da quel momento in poi, il mio approccio allo studio, alla Cultura, alla vita sarebbero cambiati radicalmente. Nonostante quella sera avessi messo a segno uno dei più grossi abbagli della mia vita: perché ero al cospetto di un Genio assoluto e non ne avevo la minima cognizione. Non mi rendevo conto di chi fosse, della sua grandezza. Non sapevo praticamente nulla di lui.

Ero giovane, certo; ma l’età non aveva nulla a che fare con quella mia inettitudine; che era, piuttosto, determinata da abissali lacune culturali. Ripensando alle cui cause ancor oggi provo un moto di disapprovazione e fastidio. Vi accennerò qualche riga più avanti. Ora procediamo con ordine.

A metà degli anni 70 la Libreria Laterza organizzava a Bari, nel locale sotterraneo del negozio in via Sparano, incontri periodici con le più prestigiose personalità della cultura. Mio zio “Peppino” (all’anagrafe Giuseppe CARBONE) tra quegli scaffali ci lavorava. Per cui, le sere in cui si tenevano quegli incontri, con la scusa di andare a trovarlo arrivavo con un po’ di anticipo rispetto al resto del pubblico e con lui attendevo che si iniziasse; il che mi consentiva di guadagnare sempre una posizione in prima fila per assistere all’evento. Così feci anche la sera in cui venne Eduardo.

Purtroppo, pur essendo seduto proprio davanti al Maestro, a pochissimi centimetri di distanza, mi ritrovo a non essere stato immortalato nella foto che ho pubblicato sopra il titolo di questo articolo. Il che, mi auguro non sottragga veridicità a questo racconto. Mi rendo perfettamente conto che, di questi tempi, se non si dimostra la propria presenza in un posto mediante la esibizione di una immagine che ne sia prova, non ci si può aspettare di essere minimamente presi sul serio. Ma lì, quella sera, io c’ero davvero; e chi sta leggendo dovrà credermi sulla parola.

All’epoca, per quanto fossi un divoratore compulsivo di libri, non avevo ancora letto nulla di Eduardo De Filippo. Né l’avevo mai visto esibirsi dal vivo in teatro. Certo, lo avevo visto spesso in televisione; ma non più di questo. In altri termini, a malapena sapevo chi fosse. Figuriamoci se avessi cognizione della sua grandezza. Della quale iniziai a rendermene conto quando constatai che di gente quella sera ce n’era davvero tanta. Il che non era capitato molto di frequente in quegli incontri infrasettimanali. Non in quella entità, quanto meno.

E tutti lo ascoltavano in religioso silenzio. Persino i rumori che provenivano dalla strada sopra le nostre teste sembrarono attenuarsi non appena il Maestro prese la parola. Attorno a lui aleggiava quell’aura che soltanto il carisma di pochi riesce ad irradiare. Aprì bocca e fu subito magia. Mi resi immediatamente conto che quell’ anziano signore che parlava di sé stesso aveva realizzato qualcosa di grande. Perché egli stesso era un grande. Ero davanti al Genio.

Anch’io, dunque, come tutti lo ascoltai rapito, ipnotizzato, affascinato. Assolutamente sedotto dal suo eloquio, dai suoi racconti, da quella voce un po’ tremula ma nel contempo decisa e fluente. Altro che “semplice” autore di qualche commedia; altro che artista di cui rammentare giusto qualche passaggio televisivo. Eppure sino a quella sera non lo conoscevo. Di quella grandezza non avevo la benché minima consapevolezza. Non sapevo nulla di lui e di quel che avesse fatto, scritto, interpretato. Nulla di nulla.

Come mai? Quali erano i motivi di tale insipienza?

Li misi a fuoco praticamente subito. Non me li nascosi, né tantomeno intendo farlo ora; per cui mi appresto ad illustrarli. Sapendo perfettamente che molti reagiranno indignati leggendoli, qui ed ora. Del che, si sappia, ho più di un motivo per infischiarmene.

Tutto va ricondotto alla scuola che frequentavo. Ero al Liceo Classico, in quello che era considerato il più autorevole istituto di Bari: lo storico Quinto Orazio Flacco.

Accadeva che, in quell’epoca, più che per la pur altissima qualità degli studi umanistici che vi si conducevano, la sua principale fama era di natura meramente ideologica. Era il liceo più “rosso” di Bari e probabilmente di tutta Italia. Non esagero, mi si creda, se affermo che in quelle aule, in quei corridoi, persino nei bagni nebbiosi di fumo si viveva quotidianamente in un’atmosfera dai toni grevi e ombrosi che ho ritrovato solo visitando l’istituto di cultura sovietica di Sofia in Bulgaria. A quei tempi, in quella scuola, o si era “di quella parte lì” o si era esclusi da tutto e tutti. Imperava un sottile bullismo legittimato dalla tessera di partito: quella con stampigliata sopra il disegno di una falce sovrapposta ad un martello.

I docenti, innanzitutto. Sconfortanti. Tranne pochissime illuminate eccezioni, sembravano essere stati selezionati da una commissione d’esame maoista, piuttosto che in virtù di detenute effettive competenze pedagogiche.

Devo precisare che in quel piattume intellettuale faceva eccezione, seppur ferreo marxista, il professor Fabrizio Canfora, mio docente di Storia e Filosofia. L’ho apprezzato, financo devotamente amato tantissimo: soprattutto perché mai ha inteso imporci la sua visone ideologica, privilegiando invece in noi tutti alunni la stimolazione a produrre pensiero autonomo ed a vivere secondo libero arbitrio. Un’altra splendida figura di insegnante era sua moglie, professoressa Rosa Cifarelli; nei cui cromosomi albergavano sfumature di repubblicanesimo e di liberalismo.

Eccezioni, come dicevo. Tutti gli altri personaggi di contorno erano invece agli antipodi di tanto liberalismo. Tanto per dirne una, a noi studentelli era imposto di ossequiare con modalità decisamente contigue al servilismo un certo docente (peraltro culturalmente piuttosto scarso) unanimemente deificato soltanto perché aveva trascorso un po’ della sua giovinezza in una formazione partigiana del nord. Levare il braccio in alto con il pugno chiuso, incontrandolo nei corridoi, era ampiamente gradito e incoraggiato. Ovviamente io non lo facevo mai; e a malapena spiccavo un frettoloso buongiorno, quando proprio non riuscivo a scansarlo.

In un ambiente siffatto il Teatro inteso come espressione artistica (e lo Spettacolo in senso più ampio) erano considerati alla stregua di autentiche aberrazioni sociali. Perché additate come “attività antiproletarie funzionalmente destinate a sollazzare la borghesia”.

La Letteratura teatrale era pressoché messa all’indice da lezioni, libri di testo e gruppi di studio. Tranne che non fosse quello degli Autori greci classici (ah, quanto mi hanno fatto detestare l’onnipresente Medea !), giusto perché erano nel programma di studio. Oppure di Bertold Brecht; o, ancora, di Drammaturghi dichiaratamente militanti. In altri termini, uno Shakespeare, un Molière o Goldoni erano decisamente innominabili.

Stesse preclusioni per la Musica. A due passi da noi, a Bari, viveva Nino Rota; ma nessuno ce lo disse mai, ammesso che buona parte dei nostri stessi docenti sapesse chi fosse. Tuttavia, dovevamo conoscere a menadito le ballate di Guccini, evitando accuratamente quelle di Fabrizio De André e di Lucio Battisti. Le nenie degli “Inti Illimani” risuonavano nei corridoi come nemmeno tra gli stand dei panini con la porchetta nelle Feste dell’Unità. E bastava solo nominare che esistesse un tale Carlos Santana, per ritrovarsi riprovevolmente emarginati per mesi.

E in Letteratura, stessa solfa. Pier Paolo Pasolini ? Fu considerato “buono” solo sino a che non scrisse che anche i poliziotti erano proletari: da qual momento fu aborrito anche lui. Moravia ? Sub judice; non convinceva granché perché scriveva di borghesia. Dino Buzzati ? Reazionario. Giovannino Guareschi ? Non abbastanza rivoluzionario; quindi al rogo, e chi se ne frega che fosse andato in galera (unico intellettuale italiano nella Storia della Repubblica) per reato di opinione.

Il Cinema e la Televisione erano ovviamente considerati, alla stregua dei Teatri, luoghi di assoluta perdizione ideologica. Nemmeno la Rivoluzione Culturale cinese era arrivata a tanto.

La creatività, la fantasia, l’Arte erano, dunque, categorie che andavano sostanzialmente aborrite; tranne che non fossero orientate e asservite alla Lotta di Classe. Questo era l’ambiente in cui il giovane sedicenne che io ero, bramoso di conoscere e studiare tutto quel che mi circondava, si ritrovava ad essere immerso fino alla cima dei capelli.

E, quindi, in quella palude di oscurantismo bolscevico, come diamine avrei mai potuto sapere chi realmente fosse Eduardo De Filippo ? Come avrei mai potuto avere l’esatta percezione della sua grandezza; della sua immensa capacità di mettersi sulle spalle le stigmate dell’animo umano e rappresentarle al mondo talvolta con dolore, talaltra con ironia ? Come mai avrei potevo sapere che era un Genio assoluto, degno epigono del suo maestro e mentore Luigi Pirandello ? E no. Proprio non potevo.

Ma quella sera mi bastò semplicemente ascoltarlo per iniziare a comprendere che il mondo della Cultura, delle Idee, dell’Arte prescinde dal colore di vernice che gli spalma sopra chi non ha voglia e capacità di studiarlo. Né di comprenderlo e tantomeno di studiarlo.

Dopo quell’incontro con lui, il mio approccio alla Cultura cambiò radicalmente. Decisi che mai più avrei nutrito preclusioni concettuali e pregiudizi personali. Tutto di tutti andava letto, visto, ascoltato, assaporato, introitato. E poi rimacinato. E digerito, metabolizzato, rielaborato.

E così feci. E così continuo a fare tutt’ora. Senza preclusioni, senza pregiudizi, senza preconcetti. Che lascio volentieri a chi non ha né voglia, né capacità di confrontarsi con gli altri.

Nella primavera del 2012, durante il mio periodo di vita trascorso a Roma, un sabato mattina andai davanti alla tomba del Maestro De Filippo nel Cimitero del Verano.

A distanza di quasi quarant’anni da quella sera, gli dovevo un bel po’ di scuse.

E tutta la mia gratitudine.


© LERARIO Cosimo, 2021

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NdA – La foto a corredo di questo articolo è stata tratta dal sito web www.librerialaterza.it

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