Fu solo quando me lo ritrovai davanti che iniziai a comprendere.
Mentre ero seduto
per terra, in prima fila, a qualche centimetro dai suoi piedi, che sedie
disponibili non ce n’erano più.
Quei piedi
appartenevano al Maestro Eduardo De
Filippo.
Ero di fronte a lui.
Stavo respirando la sua stessa aria. Abbiamo reciprocamente incrociato i nostri
sguardi. Abbiamo calpestato il medesimo pavimento. Assieme a lui ci siamo mossi
nello stesso spazio, scansando gli angoli dei medesimi tavoli colmi di libri.
Ci siamo stretti la mano.
E quando lo ascoltai
iniziai a comprendere, a realizzare che stavo partecipando a qualcosa che si
sarebbe rivelato epocale per me. Difatti, da quel momento in poi, il mio
approccio allo studio, alla Cultura, alla vita sarebbero cambiati radicalmente.
Nonostante quella sera avessi messo a segno uno dei più grossi abbagli della
mia vita: perché ero al cospetto di un Genio assoluto e non ne avevo la minima
cognizione. Non mi rendevo conto di chi fosse, della sua grandezza. Non sapevo
praticamente nulla di lui.
Ero giovane, certo;
ma l’età non aveva nulla a che fare con quella mia inettitudine; che era,
piuttosto, determinata da abissali lacune culturali. Ripensando alle cui cause
ancor oggi provo un moto di disapprovazione e fastidio. Vi accennerò qualche
riga più avanti. Ora procediamo con ordine.
A metà degli anni 70
la Libreria Laterza organizzava a Bari, nel locale sotterraneo del negozio in
via Sparano, incontri periodici con le più prestigiose personalità della
cultura. Mio zio “Peppino” (all’anagrafe Giuseppe CARBONE) tra quegli scaffali
ci lavorava. Per cui, le sere in cui si tenevano quegli incontri, con la scusa
di andare a trovarlo arrivavo con un po’ di anticipo rispetto al resto del
pubblico e con lui attendevo che si iniziasse; il che mi consentiva di guadagnare
sempre una posizione in prima fila per assistere all’evento. Così feci anche la
sera in cui venne Eduardo.
Purtroppo, pur
essendo seduto proprio davanti al Maestro, a pochissimi centimetri di distanza,
mi ritrovo a non essere stato immortalato nella foto che ho pubblicato sopra il
titolo di questo articolo. Il che, mi auguro non sottragga veridicità a questo
racconto. Mi rendo perfettamente conto che, di questi tempi, se non si dimostra
la propria presenza in un posto mediante la esibizione di una immagine che ne
sia prova, non ci si può aspettare di essere minimamente presi sul serio. Ma lì,
quella sera, io c’ero davvero; e chi sta leggendo dovrà credermi sulla parola.
All’epoca, per
quanto fossi un divoratore compulsivo di libri, non avevo ancora letto nulla di
Eduardo De Filippo. Né l’avevo mai visto esibirsi dal vivo in teatro. Certo, lo
avevo visto spesso in televisione; ma non più di questo. In altri termini, a
malapena sapevo chi fosse. Figuriamoci se avessi cognizione della sua
grandezza. Della quale iniziai a rendermene conto quando constatai che di gente
quella sera ce n’era davvero tanta. Il che non era capitato molto di frequente
in quegli incontri infrasettimanali. Non in quella entità, quanto meno.
E tutti lo
ascoltavano in religioso silenzio. Persino i rumori che provenivano dalla
strada sopra le nostre teste sembrarono attenuarsi non appena il Maestro prese
la parola. Attorno a lui aleggiava quell’aura che soltanto il carisma di pochi
riesce ad irradiare. Aprì bocca e fu subito magia. Mi resi immediatamente conto
che quell’ anziano signore che parlava di sé stesso aveva realizzato qualcosa
di grande. Perché egli stesso era un grande. Ero davanti al Genio.
Anch’io, dunque, come
tutti lo ascoltai rapito, ipnotizzato, affascinato. Assolutamente sedotto dal
suo eloquio, dai suoi racconti, da quella voce un po’ tremula ma nel contempo
decisa e fluente. Altro che “semplice” autore di qualche commedia; altro che
artista di cui rammentare giusto qualche passaggio televisivo. Eppure sino a
quella sera non lo conoscevo. Di quella grandezza non avevo la benché minima
consapevolezza. Non sapevo nulla di lui e di quel che avesse fatto, scritto,
interpretato. Nulla di nulla.
Come mai? Quali
erano i motivi di tale insipienza?
Li misi a fuoco
praticamente subito. Non me li nascosi, né tantomeno intendo farlo ora; per cui
mi appresto ad illustrarli. Sapendo perfettamente che molti reagiranno
indignati leggendoli, qui ed ora. Del che, si sappia, ho più di un motivo per
infischiarmene.
Tutto va ricondotto alla
scuola che frequentavo. Ero al Liceo Classico, in quello che era considerato il
più autorevole istituto di Bari: lo storico Quinto Orazio Flacco.
Accadeva che, in
quell’epoca, più che per la pur altissima qualità degli studi umanistici che vi
si conducevano, la sua principale fama era di natura meramente ideologica. Era
il liceo più “rosso” di Bari e probabilmente di tutta Italia. Non esagero, mi
si creda, se affermo che in quelle aule, in quei corridoi, persino nei bagni
nebbiosi di fumo si viveva quotidianamente in un’atmosfera dai toni grevi e
ombrosi che ho ritrovato solo visitando l’istituto di cultura sovietica di
Sofia in Bulgaria. A quei tempi, in quella scuola, o si era “di quella parte
lì” o si era esclusi da tutto e tutti. Imperava un sottile bullismo legittimato
dalla tessera di partito: quella con stampigliata sopra il disegno di una falce
sovrapposta ad un martello.
I docenti,
innanzitutto. Sconfortanti. Tranne pochissime illuminate eccezioni, sembravano
essere stati selezionati da una commissione d’esame maoista, piuttosto che in
virtù di detenute effettive competenze pedagogiche.
Devo precisare che
in quel piattume intellettuale faceva eccezione, seppur ferreo marxista, il professor
Fabrizio Canfora, mio docente di Storia e Filosofia. L’ho apprezzato, financo
devotamente amato tantissimo: soprattutto perché mai ha inteso imporci la sua
visone ideologica, privilegiando invece in noi tutti alunni la stimolazione a
produrre pensiero autonomo ed a vivere secondo libero arbitrio. Un’altra splendida
figura di insegnante era sua moglie, professoressa Rosa Cifarelli; nei cui cromosomi
albergavano sfumature di repubblicanesimo e di liberalismo.
Eccezioni, come
dicevo. Tutti gli altri personaggi di contorno erano invece agli antipodi di
tanto liberalismo. Tanto per dirne una, a noi studentelli era imposto di
ossequiare con modalità decisamente contigue al servilismo un certo docente (peraltro
culturalmente piuttosto scarso) unanimemente deificato soltanto perché aveva
trascorso un po’ della sua giovinezza in una formazione partigiana del nord.
Levare il braccio in alto con il pugno chiuso, incontrandolo nei corridoi, era
ampiamente gradito e incoraggiato. Ovviamente io non lo facevo mai; e a
malapena spiccavo un frettoloso buongiorno, quando proprio non riuscivo a
scansarlo.
In un ambiente
siffatto il Teatro inteso come espressione artistica (e lo Spettacolo in senso
più ampio) erano considerati alla stregua di autentiche aberrazioni sociali. Perché
additate come “attività antiproletarie funzionalmente destinate a sollazzare la
borghesia”.
La Letteratura
teatrale era pressoché messa all’indice da lezioni, libri di testo e gruppi di
studio. Tranne che non fosse quello degli Autori greci classici (ah, quanto mi
hanno fatto detestare l’onnipresente Medea !), giusto perché erano nel
programma di studio. Oppure di Bertold Brecht; o, ancora, di Drammaturghi dichiaratamente
militanti. In altri termini, uno Shakespeare, un Molière o Goldoni erano
decisamente innominabili.
Stesse preclusioni
per la Musica. A due passi da noi, a Bari, viveva Nino Rota; ma nessuno ce lo
disse mai, ammesso che buona parte dei nostri stessi docenti sapesse chi fosse.
Tuttavia, dovevamo conoscere a menadito le ballate di Guccini, evitando accuratamente
quelle di Fabrizio De André e di Lucio Battisti. Le nenie degli “Inti Illimani”
risuonavano nei corridoi come nemmeno tra gli stand dei panini con la porchetta
nelle Feste dell’Unità. E bastava solo nominare che esistesse un tale Carlos
Santana, per ritrovarsi riprovevolmente emarginati per mesi.
E in Letteratura,
stessa solfa. Pier Paolo Pasolini ? Fu considerato “buono” solo sino a che non
scrisse che anche i poliziotti erano proletari: da qual momento fu aborrito
anche lui. Moravia ? Sub judice; non convinceva granché perché scriveva di
borghesia. Dino Buzzati ? Reazionario. Giovannino Guareschi ? Non abbastanza
rivoluzionario; quindi al rogo, e chi se ne frega che fosse andato in galera
(unico intellettuale italiano nella Storia della Repubblica) per reato di
opinione.
Il Cinema e la Televisione
erano ovviamente considerati, alla stregua dei Teatri, luoghi di assoluta perdizione
ideologica. Nemmeno la Rivoluzione Culturale cinese era arrivata a tanto.
La creatività, la
fantasia, l’Arte erano, dunque, categorie che andavano sostanzialmente
aborrite; tranne che non fossero orientate e asservite alla Lotta di Classe.
Questo era l’ambiente in cui il giovane sedicenne che io ero, bramoso di
conoscere e studiare tutto quel che mi circondava, si ritrovava ad essere
immerso fino alla cima dei capelli.
E, quindi, in quella
palude di oscurantismo bolscevico, come diamine avrei mai potuto sapere chi
realmente fosse Eduardo De Filippo ? Come avrei mai potuto avere l’esatta percezione
della sua grandezza; della sua immensa capacità di mettersi sulle spalle le
stigmate dell’animo umano e rappresentarle al mondo talvolta con dolore,
talaltra con ironia ? Come mai avrei potevo sapere che era un Genio assoluto,
degno epigono del suo maestro e mentore Luigi Pirandello ? E no. Proprio non
potevo.
Ma quella sera mi
bastò semplicemente ascoltarlo per iniziare a comprendere che il mondo della
Cultura, delle Idee, dell’Arte prescinde dal colore di vernice che gli spalma
sopra chi non ha voglia e capacità di studiarlo. Né di comprenderlo e tantomeno
di studiarlo.
Dopo quell’incontro con
lui, il mio approccio alla Cultura cambiò radicalmente. Decisi che mai più avrei
nutrito preclusioni concettuali e pregiudizi personali. Tutto di tutti andava
letto, visto, ascoltato, assaporato, introitato. E poi rimacinato. E digerito,
metabolizzato, rielaborato.
E così feci. E così
continuo a fare tutt’ora. Senza preclusioni, senza pregiudizi, senza
preconcetti. Che lascio volentieri a chi non ha né voglia, né capacità di
confrontarsi con gli altri.
Nella primavera del
2012, durante il mio periodo di vita trascorso a Roma, un sabato mattina andai davanti
alla tomba del Maestro De Filippo nel Cimitero del Verano.
A distanza di quasi
quarant’anni da quella sera, gli dovevo un bel po’ di scuse.
E tutta la mia
gratitudine.
© LERARIO Cosimo, 2021
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NdA – La foto a corredo di questo articolo è stata tratta dal sito web www.librerialaterza.it
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