martedì 28 dicembre 2021

LA GIUBBA SMARRITA


LA GIUBBA SMARRITA 


Non era affatto facile guidare su quella strada. Lì, al centro del Косово и Метохија (Kosovo). Nel novembre dell’anno 2000. Percorrendo il tragitto che da Приштина (Priština) mi avrebbe condotto a Пећ (Peć).

Ero solo nel mio fuoristrada. E procedevo lentamente, molto lentamente; stando attento ad evitare tutto quel che i combattimenti avevano lasciato sul terreno.

Nelle vie che attraversavano i villaggi era necessario scansare le macerie delle costruzioni crollate sotto i bombardamenti.
Nelle strade extracittadine alberi, pali telefonici, tralicci elettrici erano disseminati dovunque sulla carreggiata come stuzzicadenti posati sul tavolo alla fine del banchetto di festa.
Ovunque si aprivano voragini, a ricordare che in quel punto si era schiantato un colpo di mortaio. Procedevo, pertanto, muovendo freneticamente a destra e a sinistra il manubrio; per giunta tenendo il volto incollato al parabrezza per scorgere la strada, dal momento che la pioggia e gli schizzi di fango che sollevavo in continuazione mi impedivano di guardare bene dove stessi andando.

Per quanto camminassi lentamente, ero terrorizzato dalla eventualità di sbandare e finire fuori strada. Perché a nemmeno venti metri dal limite della carreggiata iniziavano i campi minati. Non tutti erano già stati recintati dai Genieri della NATO e contrassegnati da quei terribili cartelli stradali con il triangolo rosso che riportava al centro la parola “MINES”. Anzi, la posizione della maggior parte di quelle trappole era ancora sconosciuta; per cui potevano essere dovunque.
Dovunque. A pochi passi da me. 
Finirci dentro significava saltare in aria. Sicuramente. Senza alcuna possibilità di scampo.

Era un ottimo motivo per guidare con la massima attenzione.

Quell’uomo me lo ritrovai davanti subito dopo avere superato una curva.
Frenai con decisione e in tal modo riuscii a non colpirlo.

Era molto alto. Magro. Camminava lentamente lungo il ciglio della strada, trascinando le gambe con indecisione. Dalla sua andatura incerta era facile comprendere che era molto stanco. Lo superai di qualche metro e fermai l’automezzo. Decisi di verificare di chi si trattasse.

Estrassi la pistola e feci scorrere il carrello, così da infilare il colpo in canna. La rimisi al suo posto nella fondina che lasciai aperta, per fronteggiare l’eventualità di dovere tirare fuori l’arma per difendermi. Quindi afferrai lo zaino contenente i miei farmaci ed il materiale sanitario di primo soccorso. Quell’uomo aveva visibilmente bisogno del mio intervento di medico. Chiunque fosse. A qualunque delle fazioni in guerra appartenesse. Uscii dall’auto e mi piazzai davanti a lui, che nel frattempo mi aveva raggiunto.
Il suo volto aveva un colore grigio, pallido, cadaverico. Il naso era affilato, le guance incavate. Gli occhi erano infossati e rossi: doveva davvero essere stanchissimo. Infatti si muoveva con piccoli e lenti movimenti: sembrava una marionetta a cui siano stati allentati i fili che la sostengono.

Dai suoi indumenti, per quanto logori e strappati, si comprendeva essere un militare. Indossava una maglia grigia strappata in più punti e pantaloni “mimetici” a chiazze multicolori. Ai piedi calzava stivali anfibi. Era sporco di terriccio e sangue rappreso. Odorava di polvere da sparo e kerosene bruciato. Era chiaramente un militare serbo. Il che rendeva necessario che lo prendessi in custodia con me. Restare lì era troppo pericoloso per lui (ed anche per me !) se fossero arrivati uomini dell’UCK.
Pertanto decisi che l’avrei accompagnato al più vicino Comando NATO, dovrei l’avrei consegnato. Questo avrei fatto. Ed ero disposto anche a sparare per portare a termine quella imprevista missione. Per difenderlo.

Mi rivolsi a lui con l’unica frase in serbo che conoscevo: “Добро јутро”. Mi rispose in perfetto italiano: “Buongiorno”.
Stranamente ebbi l’impressione che le sue labbra non si fossero mosse, eppure avevo percepito distintamente il suo saluto. Era assurdo; ma non era il caso di soffermarmi a riflettere su questo. Era dannatamente pericoloso restare lì. Dovevamo andar via quanto prima possibile.

Ripresi a parlargli. Questa volta nella mia lingua: “Stai bene ? Hai bisogno di essere medicato ?” Mi fissò a lungo, senza dire una parola. Per cui aggiunsi: “Vieni con me. Sali nella mia automobile. Ti porto al sicuro. Ma dobbiamo sbrigarci. Andiamo.”
Continuò a fissarmi. Ero certo che avesse compreso quanto avevo detto; ma era come se non gli interessasse. Mi guardava come se avessi detto qualcosa che non gli interessasse affatto. Era psichicamente scosso. Visibilmente. Sempre senza praticamente aprire bocca, mi rispose: “Devo recuperare la mia giubba. Solo dopo io potrò andare.” E si incamminò verso il bosco che costeggiava la strada.

Sudai freddo; ma gli andai dietro. Infilai sulle braccia le bretelle dello zaino sanitario ed estrassi la pistola. Pronto a tutto. Perché in quel bosco avrei potuto trovare di tutto e incontrare chiunque.
Era qualche passo avanti a me e camminava lentamente. Non faceva nemmeno rumore calpestando il tappeto di foglie secche e ramoscelli, che invece io facevo crepitare ad ogni passo.

La pioggia, fine, grigia, rendeva le immagini diafane ed ovattava i suoni. Non un uccello cantava. Non un cane latrava in lontananza. Tutto era silenzio. Assoluto.
Ad un certo punto si fermò. E lo raggiunsi.

Era in piedi sul bordo di una buca nel terreno. Una di quelle che si aprono dopo che si verificano esplosioni di un colpo d’artiglieria. O di mine.
Sul fondo della fossa c’era una giubba. Informe. Strappata. Era poggiata sopra una larga pozzanghera brunastra di sangue coagulato commisto a terreno. Qualcuno era saltato in aria in quel posto.

L’uomo afferrò la giubba e con il dorso delle dita pulì accuratamente un distintivo cucito sulla spallina.
La indossò ed io potei distinguere meglio quello stemma.

Sulla sua sommità c’erano tre lettere in alfabeto cirillico: П - Ј - П. Era la insegna della Посебне Јединице Полиције, l’Unità Speciale di Polizia serba che in quegli anni in Kosovo effettuava attività antiterroristica.
Quell’uomo era uno di loro. Quell’uomo era stato uno di loro.

Dopo che ebbe indossato la giubba, facendola aderire al proprio corpo, mi guardò. Ancora una volta. E sorrise. Quindi, si voltò. Si mosse. E si allontanò procedendo nel bosco.

Scomparve lentamente tra gli alberi, dissolvendosi nel grigiore della pioggia fine. Richiusi la fondina.

La pistola non mi serviva più.

FINE
© LERARIO Cosimo, 2021



 


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