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Non ne ho volutamente specificato né nome, né nazionalità, né stato sociale, né genere.
La sua nazionalità potrebbe essere ucraina o siriana o palestinese o israeliana; o anche mozambicana o ruandese o kosovara o bosniaca o armena. O di qualunque altra regione del mondo in cui sia svolta di recente o si stia attualmente svolgendo una guerra.
Egli/ella racconta in prima persona la sua vita ordinaria sia antecedente che durante le ostilità a cui assiste impotente, così incarnando archetipicamente tutti i bambini e tutte le bambine la cui infanzia viene stuprata dalla follia bellica.
Il linguaggio con cui si esprime nel corso della narrazione è volutamente assai semplificato, schematico, senza il ricordo a figure retoriche o sintatticamente elaborate, dal momento che viene espresso da un bambino di età scolare.
Di rilevante è che il suo eloquio è contrappuntato dalla ossessiva reiterazione della frase “Non sono stato io !” ripetuta più volte non tanto per infantile autoprotezione a fronte del giudizio dell’interlocutore a cui racconta la sua esperienza, quanto per ribadire la netta presa di distanza con quanto ha visto e subìto.
Oltre che denunciare patognomonicamente i profondi danni cognitivi indotti da una situazione tanto traumatica psicologicamente.
Pronuncerà quella frase come un mantra sino allo struggente drammatico esito finale, assai commovente e poetico.
Eccomi qua.
Ed ora che sto di fronte a voi, mettiamo
subito in chiaro una cosa:
NON
SONO STATO IO !
È vero… Sono ancora piccolo… e dovrei
stare al mio posto.
Parlare il meno possibile. E solo quando
vengo interrogato.
Ma… ma… una cosa la devo dire. Ora!
Non ho nessuna colpa in quel che è
successo.
Se non mi avete capito, ve lo ripeto:
NON
SONO STATO IO !
Bene.
Ed ora che ve l’ho detto… ora che
dovreste averlo capito bene… posso iniziare a raccontare.
Visto che me la state chiedendo, eccola
qui: questa è la mia storia.
Il mio nome ?
E che ve lo dico a fare. Non ha nessuna
importanza.
Sono solo un bambino. Come ce ne sono
milioni nel mondo.
Magari, non tutti hanno da raccontare
una storia come questa.
E tra loro non molti avranno visto quel
che io ho guardato con questi occhi, ascoltato quel che io ho sentito con
queste orecchie, provato quel che io ho sofferto su questa pelle…
Questo è certo.
Ma, credetemi, bambini che potrebbero
raccontarvi la mia stessa storia sono davvero tanti… Tantissimi.
E nessuno dovrebbe avere pace sinché al
mondo ne resta soltanto uno che soffre.
Ho deciso: studierò tanto. Tantissimo.
Così quando sarò grande farò un lavoro
che mi permetta di essere utile ai bambini come me.
Non so precisamente quale… Il medico,
forse.
Oppure il soldato: ma quello di Pace,
non quello che fa la guerra.
Oppure potrò essere una di quelle
persone che vanno in giro per il mondo a portare da mangiare e le medicine a
chi ha bisogno.
O anche… uno di quei signori con la
giacca e la cravatta che vedo in televisione: quelli che aiutano le persone che
stanno in guerra. Aspetta… come li chiamano? Ah, sì: diplomatici.
Studierò. Tanto.
E ci riuscirò.
Sono un ragazzino come tanti, dicevo.
Sempre pronto a giocare, scherzare,
correre, arrampicarmi… e, perché no, anche cadere e sbucciarmi le ginocchia.
E sempre pronto anche di buscarle un po’:
in casa e fuori.
Insomma, a fare tutto quello che tutti i
bambini del mondo fanno alla mia età.
Sapete…?
Fino a non molto tempo fa avevo anche una
famiglia “al completo”.
In cui non mancava nessuno: genitori,
fratelli, sorelle, nonni, cuginetti e zii.
Anzi, ogni tanto aumentavamo pure di
numero.
Non ci mancava niente.
E ora non è più così.
Molti di noi non ci sono più, da quando è
cominciato tutto.
Mio padre, ad esempio.
Era un gran lavoratore. Non ci ha mai fatto
mancare nulla.
Nulla!
Ricordo che usciva presto di casa al
mattino, prima ancora che il sole sorgesse. E tornava che era già tramontato.
Ora non lo fa più. Perché non sta più a
casa.
Un giorno, quando tutto iniziò, vennero a
casa delle persone con giacche strane: erano tutte a macchie verdi e marroni.
Forse erano cacciatori, perché avevano dei fucili appesi alla schiena.
Lo aspettarono una sera davanti casa.
Parlarono un po’. Poi mio padre andò via
con loro. Vestito come loro.
Da quella sera non è più tornato. Non so
perché.
Ma non è successo per colpa mia. Io volevo
che restasse con noi.
NON
SONO STATO IO !
Da allora io, i miei fratelli e le mie
sorelle siamo rimasti soli con la mamma.
Lei non se n’è andata… È sempre con noi.
Però, da quando mio padre è andato via è
cambiata. Sembra un’altra mamma.
Non ride più.
Non parla più.
Non mangia più.
Non dorme nemmeno più.; lo so perché io la
notte la sento piangere continuamente. Ogni notte.
Ma non lo fa per colpa mia. Credetemi.
Io non le ho fatto nulla.
NON
SONO STATO IO !
A scuola mi piaceva andarci.
Tanto.
Era bellissimo stare lì.
Perché stavo con i miei amici. E anche
perché imparavo sempre qualcosa di nuovo.
La mia maestra era tanto dolce.
E affettuosa come una mamma.
Tutti i giorni, appena entrava in classe ci
abbracciava e baciava tutti prima di cominciare la lezione.
Poi guardava nelle nostre borse per controllare che
ci fosse la merenda. Se qualcuno non l’aveva, tirava fuori dalla sua borsa un
po’ di biscotti e li distribuiva a chi era senza merendina.
Tutti i giorni.
Sorrideva sempre. Era gentile: non si inquietava
mai con noi. Al massimo, alzava un po’ la voce quando proprio le nostre
marachelle diventavano troppe. Ma le facevamo nel corridoio, mai in classe
quando c’era lei.
Le sue lezioni erano bellissime. Le seguivamo tutti
con attenzione. E imparavamo tante cose.
Ci aiutava sempre
tutti. Soprattutto quando vedeva che eravamo in difficoltà.
Le volevamo tutti
tanto bene. L’ho detto prima: per noi era una seconda mamma.
Da quando non andiamo
più a scuola non sappiamo più nulla di lei. Nessuno di noi l’ha più vista.
Infatti, un giorno ci chiamarono tutti nel cortile e ci dissero che dovevamo
tornare a casa.
La scuola doveva essere chiusa.
Dissero
che era troppo pericoloso che tanti ragazzi stessero fermi tutti assieme
nello stesso posto con quello che stava succedendo.
Dissero che non dovevamo più andarci. Né il
giorno dopo, né quello appresso.
Ci avrebbero avvisati loro quando potevamo
tornare. Ma non è ancora successo.
Ed allora io non ci andai più.
Ma non è stato per colpa mia, ve lo giuro.
Io volevo andarci. Volevo imparare cose
nuove. Volevo abbracciare ancora la mia maestra.
Non l’ho chiusa io la mia scuola.
NON
SONO STATO IO !
Dopo che la scuola fu chiusa io ed i miei
amici diventammo i padroni della città.
Se proprio vogliamo dirla tutta, era così
anche prima; ma da quel momento in poi avemmo tantissimo tempo libero per scorrazzare
in lungo e in largo dove volevamo.
E combinarne di tutti i colori.
Non c’era via, piazza, palazzo, parco,
cortile che non conoscessimo a menadito. Ed in cui non facevamo qualcosa di
divertente.
E in quei pochi in cui non era ancora successo…
beh, era solo questione di tempo.
Giocavamo a nascondino.
Facevamo gare di corsa.
E quando trovavamo degli stracci da raggomitolare a
palla giocavamo a calcio.
Costruivamo rifugi con
i sacchi della spazzatura; o con rami e pezzi di legno. O con qualunque cosa avevamo
tra le mani. Sembravamo quelle rondini che, appena arrivate in primavera,
raccattano un po’ di tutto per costruire il nido.
Esploravamo qualunque
angolo della città ci fosse ancora sconosciuto.
Poi, però, pian piano
tutto questo finì. Perché le strade diventarono sempre meno sicure.
E perché gli amici
iniziarono a mancare.
Alcuni scapparono via
con i loro genitori.
Altri semplicemente li
salutammo di sera ed il mattino dopo non c’erano più. Non so perché.
Eravamo sempre di
meno, ogni giorno che passava.
Ma non è
successo per colpa mia, ve lo giuro.
Non volevo
vederli sparire così… dalla sera alla mattina.
Io volevo restare
sempre insieme a loro. Tutti.
Credetemi, vi
prego:
NON
SONO STATO IO !
A parte giocare, vagando per la città
riuscivamo anche a trovare qualcosa da mettere nello stomaco.
Avevamo fame. Sempre.
E nelle nostre case il cibo era sempre più
scarso.
Così, quando iniziarono i bombardamenti,
imparammo a cercarlo tra le macerie delle case distrutte. Preferivo fare così
invece che toglierlo dalla bocca dei miei fratelli e sorelle più piccoli di me.
E se andava bene, oltre che mangiare io ne potevo
portare anche un po’ a casa.
Il cibo andavamo a cercarlo nei quartieri
più ricchi della città. Nei palazzi del centro e nelle ville delle zone
residenziali. Ma solo in quelli che erano stati bombardati.
Mai saremmo andati a rubare cibo in una
casa ancora in piedi, ad altre famiglie disperate come le nostre.
Lo facevamo solo in quelle abitazioni ormai
distrutte, i cui abitanti erano morti o fuggiti chissà dove.
Lì andavamo noi. Ogni volta che sentivamo
che una certa zona in un certo quartiere era stata bombardata, lì ci
precipitavamo.
Entravamo in quelle case come potevamo:
infilandoci tra i muri crollati e scivolando come serpentelli tra le tubazioni spaccate.
Con la speranza che, una volta dentro, quel
che rimaneva dei muri non ci crollasse addosso.
Soprattutto cercavamo cibi in scatola ancora buoni da mangiare e facili
da portar via: pasta, riso, cereali.
Una volta riuscimmo ad
entrare in quel che un tempo era un supermercato. E riuscii a portare alla mia
famiglia da mangiare per tantissimi giorni.
Da tempo non vedevo
più quel sorriso bellissimo che mia madre mi rivolse quando arrivai con tutta
quella roba. Il suo volto si illuminò. Ma solo per un istante.
Durò
pochissimo e poi si spense. E tornò addolorato come sempre.
Ma quei
brevissimi istanti furono meravigliosi.
E che gioa vedere i miei fratellini e le
mie sorelline finalmente felici.
Non ce la facevo più a vederli piangere per
la fame, rotolarsi per terra con i dolori alla pancia. E non potere fare nulla
per farli calmare.
Ma non è
successo per colpa mia…
NON
SONO STATO IO !
Una notte vennero.
Loro. Quegli uomini,
Erano vestiti come quelli che erano venuti a
prendere il mio papà: con la giubba a macchie. Solo che i colori erano differenti.
Anche questi avevano i fucili e sembravano cacciatori.
Però, quelli che erano venuti l’altra volta
erano gentili. E parlavano la nostra lingua. Questi altri, invece, no.
Era notte. Dormivamo.
Noi fratelli di sicuro; mia madre
sicuramente no. Come al solito.
Sentimmo all'improvviso battere alla porta.
Fortissimo.
Ci svegliammo tutti di soprassalto.
"Aprite!" gridarono. "Aprite,
o buttiamo giù la porta!"
Mia madre andò ad aprire. Non fece in tempo nemmeno
a spostare piano piano l’anta, che quelli entrarono correndo.
"Che
volete?" chiese mamma.
"Siamo
qui per un controllo"
rispose uno di loro.
"Aprite
tutti gli armadi, i cassetti e i bauli."
E iniziarono a tirare fuori, da quelli, tutto ciò
che c’era dentro: vestiti, berretti, asciugamani, scarpe, posate, penne, libri,
quaderni. Tutto, insomma.
E buttavano tutto sul pavimento.
Noi fratelli ci stringemmo tutti attorno a mamma.
Sembrava che le sue braccia fossero cresciute di due metri, per come riuscì ad
abbracciarci tutti assieme.
Morivamo tutti di paura.
Dopo un po', uno dei soldati trovò un vecchio coltello
tutto arrugginito che mio padre usava per le piante del giardino.
"Avete
un'arma in casa!"
"Ma
è vecchio e non serve più. Non ha più il filo. Non mi ricordavo nemmeno che ci
fosse ancora " disse mia
madre.
"Non
importa" rispose
il soldato. "Non si può tenere."
E se lo mise in tasca.
"Ce
ne sono altri?" chiese
poi guardandoci tutti negli occhi, uno alla volta.
Mio fratello maggiore rispose: "No. C’era solo quello."
"Va
bene" disse il soldato. "Ora andatevene a dormire. E state
attenti a quello che fate. Che noi qua torniamo quando vogliamo."
E se ne andarono.
Sinora non sono più tornati. Ma noi da quella sera
abbiamo paura tutte le notti.
E piangiamo tutti le notti.
Mannaggia a quel coltello brutto e arrugginito.
Che poi, ve lo giuro, non era mio. Io nemmeno
l’avevo mai toccato.
Non c’entro niente io. Non è stata colpa mia.
NON
SONO STATO IO !
Il fatto è che soldati vestiti come quelli,
diversi dai nostri ce n’erano tanti in giro nelle strade.
E aumentavano
ogni giorno.
Quando io ed i miei amici uscivamo per
andare in giro, ce la facevamo sotto dalla paura, ogni volta che li
incontravamo.
Non avevamo paura, invece, dei carri armati.
Quanto ci piaceva andarli a vedere mentre
si muovevano nelle strade. Certo, ci mettevamo a distanza e ci nascondevamo per
non farci vedere da chi c’era dentro… ma passavamo ore a guardarli.
Era un gioco per noi.
Immaginavamo che i carri armati erano
dinosauri. E noi, uomini primitivi cacciatori che li osservavamo per poterli
attaccare.
Raccoglievamo dalle macerie delle case quel
che trovavamo per fingere che fossero le nostre armi: listarelle di legno si
trasformavano in clave, tubi dell’acqua spezzati in lance, pezzi di intonaco
pietre per le fionde,
Ma facevamo soltanto finta di attaccarli.
E ci nascondevamo bene, che se i soldati ci
avessero visti sarebbero stati dolori.
Quello che dei carri armati non ci piaceva,
però, era che quando uscivano dalle strade e si spostavano sui marciapiedi con
i loro cingoli schiacciavano tutto quello che trovavano.
Automobili, vetrine dei negozi, portoni… E
dopo che erano passati tutto era ridotto a pezzettini piccoli piccoli.
Ho visto le case di miei amici sbriciolate
da quei dinosauri. E mi era venuto da piangere in quel momento.
Ma non potevo farci niente. Non potevo
uscire da dove mi ero nascosto per andarli a combattere con la mia spada di
legno.
Lo so, non è da ragazzi coraggiosi guardare senza
fare nulla. Ma avevo
troppa paura !
E poi… erano loro che distruggevano tutto. Non io.
NON
SONO STATO IO !
Che
paura avemmo, poi, quel giorno al mercato!
La macerie dei palazzi crollati avevano
lasciato libera una piazzetta, dove al mattino venivano messe delle cassette di
legno con qualche frutto e un po’ di verdura da vendere a chi passava di lì.
Noi ci andavamo ogni giorno, con la
speranza che nei secchi dove lavavano gli ortaggi restasse qualche foglia o
qualche gambo da portare a casa, mettere nell’acqua calda e provare a cucinare
una specie di zuppa.
Ricordo che era una bella giornata: splendeva il sole.
Per cui c’erano un bel po’ di persone ferme a
parlare tra loro e con i venditori. Questi perciò non stavano attenti a noi,
che ci avvicinammo piano piano per provare a prendere qualcosa dalle cassette
che erano per terra.
Possibilmente senza
farcene accorgere non solo da loro, ma anche dai soldati che stavano
tutt’intorno
Ad un tratto, però, un
uomo si avvicinò.
Uscì una pistola dalla
tasca ed iniziò a sparare contro i soldati.
Che iniziarono a
sparare anche loro.
Tutta la gente che
c’era iniziò a correre terrorizzata in tutte le direzioni.
Noi pure scappammo e
andammo a rifugiarci dietro un mucchio di macerie.
Tutti attorno a noi
urlavano e piangevano.
Non si capiva più
nulla.
Vedemmo molti cadere.
Bambini, adulti. anziani.
Persone innocenti, che
non avevano fatto nulla di male per meritarsi di morire.
Noi eravamo lì solo per trovare qualcosa da
mangiare. Solo per quello.
Non abbiamo sparato… noi.
Non è stata colpa nostra. Non è stata colpa mia.
NON
SONO STATO IO !
La
prima volta che le vidi non ebbi paura. Anzi, fu bello.
Quanto
ci piacquero: a me, ai miei fratelli e alle
mie sorelline.
Era
notte, ma a casa eravamo ancora tutti svegli.
Stavamo
alla finestra a guardare le stelle; che non c’era nemmeno una nuvola in cielo.
La
luna sembrava una fetta di limone e ci mettemmo a scherzare su questo. La mia
sorellina disse: “Dev’essere grandissimo
il bicchiere dove si mette quella fetta…”
E noi tutti a ridere.
Ad un certo punto sentimmo un suono strano.
Anzi, tanti.
"Shhh... shhh... shhh... shhh..."
Come quello che si sente quando si buca la ruota della
bicicletta.
Oppure a quello che fa la bombola del gas
quando si stacca il tubo.
Solo che erano fortissimi.
Subito dopo bellissime strisce luminose
attraversarono il cielo. Sembravano i fuochi d’artificio quando si fa festa in
città.
Erano tante, tantissime. Velocissime. Coloratissime.
Ci mettemmo tutti a battere le mani quando
le vedemmo.
Avevamo gli occhi sgranati davanti a quello
spettacolo.
Però, ad un certo punto, quando ormai
quelle linee nel cielo non si vedevano più, il pavimento prima si sollevò sotto
i nostri piedi e dopo scese di nuovo tornando com’era prima.
I muri iniziarono a tremare.
Si sentì un
rumore fortissimo. Assomigliava a quello del tuono durante i temporali. Ma era
molto, molto, molto più forte.
Poi tutto si illuminò: il cielo, la strada fuori dalla nostra
casa, la stanza dove eravamo.
E dalla finestra aperte l’aria entrò
velocissima e ci venne addosso: era come se un gigante invisibile avesse infilato
le sue mani nella nostra stanza e ci avesse preso tutti a schiaffi.
Subito dopo che quel vento si calmò, entrò
nella stanza una nuvola di polvere che ci avvolse tutti. E ci lasciò tutti
inzaccherati di bianco, nemmeno fossimo stati passati nella farina prima di
essere fritti.
Appena il rumore, il vento e la polvere
finirono, tornammo alla finestra e guardammo fuori. Il palazzo di fronte non
c’era più.
Lì dentro ci vivevano due nostri amici.
Da quella sera non li vedemmo più.
Da
quella sera capimmo che le strisce colorate nel cielo non erano buone.
Da
quella sera in poi, appena sentivamo il rumore della ruota forata, capivamo che
stavano arrivando e correvamo tutti in cantina.
Così
che… se pure entrava in casa l’aria, almeno non ci prendeva a schiaffi di
nuovo.
E
la polvere non ci sporcava dalla testa ai piedi.
Che clpa ne ho io se la casa dei miei amici è
crollata…
Io stavo solo guardando i fuochi d’artificio con i
miei fratelli e le mie sorelle.
NON
SONO STATO IO !
Una
mattina, quando risalimmo in casa dopo che avevamo passato tutta la notte in
cantina perché erano tornate le strisce nel cielo, trovammo tutte le case
attorno alla nostra non c’erano più.
Erano
sbriciolate come i biscotti da mettere nella tazza del thè.
Conciate
come le case dove io ed i miei amici andavamo a cercare il cibo.
Corsi
subito fuori per andare a vedere.
Dove
prima c’erano case erano rimaste solo montagnette di detriti,
Sembrava
una enorme zuppa; solo che invece delle verdure c’erano mattoni, legno dei cornicioni,
vetri delle finestre, tubi dell’acqua e pezzi di cavi elettrici.
Ma
anche dell’altro: lampioni stradali spezzati, grumi di asfalto della strada,
pezzi di automobili.
Ed
anche pezzi di persone.
Credetemi,
è vero.
Mio
fratello maggiore mentre camminava a fianco a me inciampò nella testa di una
ragazza. Aveva ancora il rossetto sulle labbra.
E
da quel giorno la notte non dorme più. Come mamma.
Dice
che appena chiude gli occhi la vede; e vede la bocca che si muove perchè gli
vuole dare un bacio.
E
anche se riesce ad addormentarsi, dopo poco si sveglia e comincia a piangere
per tutta la notte.
Io,
invece, trovai un mano che aveva ancora un anello infilato attorno ad un dito.
Credevo
fosse di un bambolotto e la presi, ma solo per un attimo.
Quando
compresi cosa era veramente, la lanciai lontano. Come se scottasse.
L’aria
aveva un odore terribile. Puzzava come le uova quando sono vecchie; ma molto
più forte. E poi era dolciastro.
Non
capivo proprio cosa fosse. Così lo chiesi ad un signore che si stava riposando
un attimo dopo avere scavato a mani nude tra quei detriti.
Mi
guardò e disse
“Questo è odore di sangue e di carne strappata.
Questo è l’odore della morte !”
E
mentre lo diceva le lacrime gli scendevano lungo le guance.
Io,
appena me lo disse, mi misi a vomitare.
C’erano
persone che come quel signore scavavano le macerie con le mani chiamando ad
alta voce i nomi di figli, figlie, fratelli, sorelle, mogli che erano là sotto.
E tutt’attorno c’erano tante donne che
urlavano, piangevano, si strappavano i vestiti e si tiravano i capelli.
Anch’io mi misi a piangere insieme a loro.
Ma ve lo giuro. Non le ho fatte io a
pezzetti quelle persone. Sono state le strisce luminose.
Io sono arrivato dopo…
NON
SONO STATO IO !
Niente. Non smettevo di vomitare.
Continuamente.
Così forte che il mio stomaco sembrava volere
uscire dalla bocca.
Quando finalmente il vomito finì avevo
tanta sete; ma non mi andava di tornare indietro a casa a bere un bicchiere di
acqua fresca.
No. Decisi di andare alla fontanella della
piazzetta; quella dove andavamo con le bottiglie e le taniche a caricarci di
acqua per casa. Volevo vedere se anche quella era stata distrutta dalle strisce
luminose.
Per arrivarci dovevo fare un lungo giro ed
arrampicarmi sul muro crollato della bottega del falegname del quartiere,
perché la strada più breve era completamente coperta di detriti.
All’inizio e alla fine della via erano
stati messi degli sbarramenti di cemento per non fare passare nessuno. Sopra
quelli c’era un cartello veramente curioso: era un triangolo tutto rosso, al
centro del quale c’era il disegno di un teschio.
Non ho mai capito cosa volesse significare,
ma lo trovavo divertente.
La sete era fortissima e sentivo la bocca
impastata come se ci fosse dentro un mucchio di polvere.
Avevo fretta di arrivare alla fontanella.
Allora ho deciso di scavalcare la barriera
di cemento e camminare sulla strada.
Ad un certo punto, ho poggiato il piede su
una scatoletta di ferro.
Quella appena l’ho calpestata ha iniziato a
tremare tutta.
Vuoi vedere che avevo pestato una sveglia e
proprio in quel momento era scoccata l’ora per cui era stata caricata ?
Non so perché, ma solo a pensarlo mi è
venuto da ridere. Fortissimo. A crepapelle.
E nel frattempo la sveglia vibrava sempre
più forte… sempre più forte…
Poi si fermò e sentii un rumore fortissimo.
E si alzò un vento caldissimo, così forte che
mi ha fatto cadere all’indietro.
Come mi capita sempre quando perdo l’equilibrio,
ho chiuso gli occhi per un attimo.
Ora che li ho riaperti, ho visto voi.
Ed eccomi qui a parlare con voi.
Questo è tutto quanto avevo da
raccontarvi.
Ma… lo sapete che è proprio bello stare
qui?
Mi sento così sereno. In pace.
Oh, accidenti… e adesso… chi ha acceso questa
Luce…?
Ma quanto è forte… Mi acceca.
Non riesco nemmeno a guardarla.
Però… però è bellissima !
Non so dirvi perché… ma è bellissima.
E quanto è calda ! Mi fa sentire così
bene…!
Come dite ?
Sì… sì… Ho capito.
D’accordo: ora vengo di là.
Adesso arrivo. Eccomi.
Però… oh!... intendiamoci bene…
…prima di muovermi ve lo dico per
l’ultima volta, così sia chiaro una volta per tutte:
NON
SONO STATO IO !
FINE
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