sabato 9 novembre 2024

La giubba smarrita

 



 

Questo racconto è atroce.

Perchè parla di guerra, Grande Meretrice e dispensatrice di dolore, lutti e distruzione.

Una guerra autentica, che è stata combattuta realmente; e non nella fantasia di chi ne scrive.

Una guerra che probabilmente non è mai ancora cessata. E che ne ha generate tante altre.

Questo racconto narra di due uomini che si sono trovati ad esserci dentro, in quella guerra.

Due militari per mestiere, non per vocazione; che indossavano divise, parlavano lingue, avevano cultura, nutrivano passioni, conducevano esistenze assolutamente differenti.

Nemici tra loro? Forse. O forse no, chissà.

A proposito, uno di quei due ero io. Ecco cosa accadde.

Il terzo millennio era iniziato solo da qualche mese ed io mi ero ritrovato a dovere prestare la mia opera di medico militare in una guerra ancor più assurda di quanto non lo siano già tutte. Perchè veniva combattuta contro nemici che spesso abitavano nello stesso caseggiato, se non sullo stesso pianerottolo. Tra gente che il giorno prima si scambiava lo zucchero o il sale e il seguente si massacrava a colpi di Kalashnikov.  

Un conflitto in cui c'erano alcuni che giocavano a calcio usando come pallone le teste mozzate dei nemici. E che tali considerava anche donne, anziani e bambini.

Ero stato catapultato in un luogo dove l’odio si consumava già di primo mattino, inzuppato nel caffè corretto con la “rakija”. Nel cuore dell'Europa, nei Balcani.

Assegnato al Comando NATO di Pristina, impiantato dopo che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva dichiarato ufficialmente cessata la Guerra del Kosovo. Il che, evidentemente, non doveva essere stato recepito proprio da tutti; dal momento che da quelle parti si continuava a sparare. E a morire.

Quel Comando era stato allestito nel luogo in cui sorgevano gli stabilimenti cinematografici: praticamente la Cinecittà jugoslava. Ragion per cui era stato battezzato con una denominazione persino simpatica e accattivante: “Film City Headquarters”.

Quando si rendeva necessario uscivo dalla base e mi spostavo in altri territori della regione. Trasferte che, da autentico incosciente, preferivo effettuare da solo. Senza scorta, né assistenti.

Mi facevo assegnare un fuoristrada con un minimo di blindatura e, dopo essermi adeguatamente armato ed equipaggiato, mi muovevo

Mai dimenticando di portare con me qualche bottiglia di vodka e un po’ scatole di biscotti da lasciare in dono ai soldati russi che presidiavano i check point dislocati lungo quel che restava delle strade devastate dai bombardamenti. Su cui bisognava guidare stando assai bene attenti ad evitare di cadere nelle voragini da esplosione, di cui erano dovunque butterate.

Attraversando i villaggi, poi, bisognava scansare tutto quanto si trovava disseminato sulla carreggiata: macerie di costruzioni crollate, alberi, pali, tralicci. Stando anche attenti a non schiacciare sotto le ruote cadaveri; che spesso, purtroppo, non appartenevano solo ad animali.

La vicenda che vado a narrare accadde proprio nel corso di uno di quegli spostamenti.

Era metà novembre dell’anno 2000.

Ero in movimento verso la città di Peć (o Pëje, detto in albanese kosovaro) nel settore occidentale. Dove erano dislocate le forze italiane.

Avevo lasciato Pristina da una buona mezz’ora e procedevo con fatica, dovendo stare con il volto praticamente incollato al parabrezza dal momento che il nevischio, la nebbia e gli schizzi di fango che sollevavo in continuazione mi impedivano di guardare bene dove stessi andando.

Quel che più mi terrorizzava era l’eventualità di sbandare e finire fuori strada. Perché, proprio in quella zona del tragitto, a nemmeno dieci metri dal limite della strada iniziavano i campi minati. Per cui c’era il rischio reale che ogni dosso, ogni pietra miliare, ogni masso, ogni cespuglio potesse celare la presenza di un ordigno esplosivo.

Finire dentro una di quelle trappole significava saltare in aria. Senza alcuna possibilità di scampo. Il che era, per me, un ottimo motivo per guidare con la massima attenzione e a bassissima velocità. Lentamente, molto lentamente.

Fu proprio per questo che fui in grado di scansare quell’uomo.

Me lo ero trovato davanti appena dopo avere superato una curva.

Appena lo vidi, frenai con decisione e scantonai con l’auto prima verso il centrostrada; quindi superatolo, mi accostai a destra. E fermai l’automezzo.

Attraverso lo specchietto retrovisore constatai che era ancora in piedi.

Non lo avevo, dunque, colpito.

Camminava lentamente, barcollando, lungo il ciglio della strada; trascinando i passi con immane fatica. Dava l’impressione di essere molto stanco. O ferito.

Decisi di scendere a verificare la situazione.

Estrassi la pistola dalla fondina e ne feci scorrere il carrello, così da infilare il colpo in canna. Quindi afferrai lo zaino contenente materiale sanitario di primo soccorso. Ed uscii dall’auto.

Appena fuori fui sferzato sul volto da una sciabolata di brezza gelida.

Continuava a nevicare e la nebbia si era fatta assai fitta. Già a soli dieci metri di distanza non si riusciva a distinguere nulla.

Tutto era immerso in un silenzio innaturale, rotto solo dal fruscio del vento e dal latrare di un cane in lontananza. In quei boschi martoriati nemmeno più gli uccelli si facevano sentire; da chissà quanto tempo.

Nell'aria si percepiva un persistente odore di esplosivo e fumo; che entrando dalle narici scese ad irritarmi la gola, facendomi tossire stizzosamente.

Raggiunsi lentamente l’uomo, che nel frattempo si era fermato come ad attendere il mio arrivo.

Man mano che mi avvicinavo a lui riuscivo a distinguere sempre più nitidamente le sue fattezze.

Era molto emaciato; di una magrezza impressionante, resa ancora più evidente dalla sua riguardevole statura.

Il volto era di un pallore livido, cadaverico.

Gli occhi, semichiusi da palpebre sottilissime, lasciavano intravedere sottostanti opache sclere cerulee. Circondati, com’erano, da una sorta di cerchio plumbeo, apparivano infossati rispetto alla restante cute del viso.

Il naso, affusolato e appuntito, sporgeva tra guance così tanto incavate da rendere gli zigomi innaturalmente prominenti.

La bocca era ridotta ad una stratta fessura circoscritta tra due sottilissime labbra screpolate e fissurate da ragadi secche e profonde.

La barba manifestamente ispida e trascurata.

Tutto, delle fattezze spettrali di quell’uomo, indicava che stesse vivendo un profondo stato di sofferenza.

Per quanto nessuna emozione trasparisse da quel volto. Nessuna.

Teneva lo sguardo fisso nel vuoto dinanzi a sé, con espressione spenta e amimica. E continuava a dondolare ripetutamente il tronco avanti ed indietro, con movimenti a scatti. Sembrava una marionetta a cui fossero  stati spezzati i fili.

L'impressione che ne riportai, pertanto, fu che non solo fosse fisicamente stanchissimo e sofferente, ma anche psicologicamente molto provato.

Quell’uomo aveva assoluta necessità di un sostegno sanitario. Chiunque fosse. A qualunque delle fazioni in guerra appartenesse. Che fosse a noi ostile o alleato.

Solo quando giunsi ad un paio di metri da lui diresse lo sguardo verso di me.

Mi guardò, quindi abbassò di scatto il capo e concentrò la sua attenzione verso qualcosa che stringeva nelle mani.

Quel movimento così repentino mi spaventò. Per un attimo temetti che avesse una bomba che avrebbe potuto lanciarmi contro; o con cui avrebbe potuto farsi saltare in aria, coinvolgendomi nell’esplosione.

Perciò sollevai la pistola e gliela puntai contro, intimandogli urlando di non fare nessun movimento.

Dischiuse lentamente le mani, le sollevò e le rivolse verso di me, come a porgermi qualcosa.

Tirai un sospiro di sollievo. Tra le dita aveva soltanto dei fogli di carta. E nient'altro.

Voleva che li prendessi, per cui con la mano libera dall’arma li afferrai.

Non erano documenti, ma due fotografie sporche e stropicciate con i volti di una donna e di due bambini. La sua famiglia.

In una c’era anche lui, in uniforme. Era dunque un militare.

Lo osservai meglio. E ne ebbi conferma.

Indossava una maglia grigio verde, lisa e strappata in più punti. Alla vita calzava un cinturone in canapa che teneva sollevati dei pantaloni chiazzati, sporchi di terra e di qualcos’altro che sembrava sangue rappreso.

Ai piedi calzava stivaletti anfibi.

Ora che ero abbastanza vicino da poterli annusare, mi resi conto che i suoi vestiti emanavano un inconfondibile sentore di polvere da sparo e kerosene bruciato. Un odore che conoscevo bene.

Dal quel che indossava nella fotografia e da quel che gli restava indosso dedussi che era di nazionalità serba. Il che rendeva assolutamente necessario che lo prendessi immediatamente in custodia, se volevo salvargli la vita.

Infatti, la zona in cui stavamo era controllata dai guerriglieri del sedicente Esercito di Liberazione del Kosovo, meglio noto con la sigla UÇK: la sanguinaria milizia paramilitare che già due anni prima era stata inserita dalle Nazioni Unite nella  lista nera delle organizzazioni terroristiche.

Se fossimo stati intercettati proprio da quella, il serbo sarebbe stato immediatamente passato per le armi. Ad andargli di lusso.

Quanto a me, non credo che l’appartenere alla NATO li avrebbe fatti desistere dall’usarmi il medesimo trattamento. Anche perché sarei stato comunque un testimone assai scomodo.

Ragion per cui dovevamo scappare via da quel posto. Prima possibile.

Decisi che sarei tornato indietro, a Pristina. Portando quell’uomo con me.

Lì sarebbe stato al sicuro. E avrei anche potuto curarlo.

Era l’unica cosa che potessi fare.

Mi rivolsi a lui con una delle poche frasi in serbo che conoscevo: “Dobro jutro”. Cioè “Buongiorno”.  

Mi rispose, con mia grande sorpresa, in perfetto italiano: “Buongiorno”.

Rimasi sconcertato dall’avere avuto l’assurda impressione che le sue labbra non si fossero mosse. Come se il suo saluto, che avevo percepito distintamente, mi fosse arrivato direttamente in mente senza passare dalle mie orecchie.

Ma che diavolo andavo a pensare… La tensione nervosa che stavo macinando in quel momento mi stava sicuramente giocando un brutto scherzo.

Ripresi a parlargli. Questa volta in italiano, dal momento che sembrava conoscerlo bene.

 Come si sente ? Ha bisogno di essere medicato ?

Non mi rispose.

Restò in silenzio a scrutarmi, senza profferire parola. Fisso come una statua.

Per cui aggiunsi:

Ascolti… Siamo in pericolo. Comprende, vero ? Salga con me in auto. La porto al Comando NATO di Pristina, al sicuro. Ma facciamo in fretta, la prego.”

Continuò a tacere, senza mutare per nulla la sua espressione.

Per cui aggiunsi:

“È per la sua sicurezza che glielo dico. Anzi… di tutti e due. Stia tranquillo: non la sto considerando un prigioniero di guerra, perché lei non ha avuto un comportamento ostile nei miei confronti. Ma dobbiamo andare via velocemente da qui. In fretta. Ha capito o no quello che le sto dicendo ?

Niente da fare. Continuava a fissarmi attonito, senza rispondere. Né muoversi di un millimetro.

Avevo la netta sensazione che avesse compreso perfettamente tutto quanto avevo detto; ma, non so come dire, era come se non gliene interessasse assolutamente nulla.

La mia ansia aumentava ogni attimo che passava; perché ogni millesimo di secondo che restavamo lì aumentava le probabilità che venissimo scoperti.

Non sapevo nemmeno che cosa fare. Andarmene senza di lui avrebbe significato condannarlo a morte. Restare lì, pure.

Fortunatamente, ad un tratto, si decise a rispondermi.

E anche questa volta sembrò che lo facesse senza aprire bocca.

Le sue parole furono: “Devo prima recuperare la mia giubba. Solo dopo… io potrò andare dove devo andare.

Restai costernato: che diamine significava ?

Ma non dette il tempo di riflettere. Repentinamente si voltò e si incamminò verso la boscaglia.

Sudai freddo. Quanto tempo avremmo perso per trovare la sua dannata giubba?

Sussurrando (giusto perché non potevo farlo urlando) gli lanciai dietro tutte le peggiori imprecazioni mi venissero in mente in quel momento: in dialetto barese, in italiano e pure in serbo.

E per un attimo ebbi anche la tentazione di abbandonarlo al suo destino, considerato che era pure sparito dentro il muro di nebbia.

Ma avrei mai potuto condannarlo a morte certa? Proprio io ?

Per cui gli andai dietro.

Con apprensione e circospezione; ma soprattutto con l’arma puntata. Pronto a tutto.

Perché in quel bosco avrei potuto davvero trovare di tutto e incontrare chiunque.

Lo raggiunsi presto, anche perché procedeva molto lentamente.

Lo faceva senza fare il benché minimo rumore, pur calpestando un tappeto di foglie secche e di ramoscelli umidi. Al contrario di me, che invece li facevo crepitare ad ogni passo. Ma come diavolo ci riusciva? Che razza di addestramento alla guerra nei boschi aveva mai fatto? Sembrava levitasse, invece che camminare.

Ad un certo punto si arrestò sul ciglio di una enorme buca aperta nel terreno.

Una di quelle che si formano quando esplode un colpo d’artiglieria. O una mina.

Si era messo a fissare qualcosa che si trovava sul fondo di quella voragine.

Quando lo affiancai guardai anch’io di sotto.

C’era il corpo di un uomo. Dilaniato.

Dai cui poveri resti semicarbonizzati si sollevava ancora un esile filo di fumo.  

Qualcuno era saltato in aria proprio lì, non troppo tempo prima.

Quel che ne restava era disteso sopra una larga pozzanghera brunastra di sangue coagulato, avvolto in quel che sembrava una giubba. Lacera, informe, intrisa di terra e chissà cos’altro; ma ancora riconoscibile come tale: una giubba.

L’uomo saltò all’interno della fossa.

Si chinò su quelle povere spoglie e ne sfilò quel capo di vestiario, con cui risalì Appena fu riemerso con il dorso della mano pulì accuratamente dal terreno uno stemma in stoffa cucito poco sotto una delle due spalline. Quando terminò, lo portò alle labbra e lo baciò.

Quindi indossò la giubba, facendola aderire al proprio corpo e introducendo, nelle asole oscenamente slabbrate quel paio di bottoni che ne erano rimasti attaccati.

Incuriosito mi sporsi verso di lui per vedere da vicino lo stemma verso il quale aveva manifestato quel trasporto quasi religioso.

Per quanto fosse quasi completamente strappato, riconobbi le tre lettere ricamate in cirillico: П - Ј - П. Che in alfabeto occidentale corrispondevano a P - J - P. Riconobbi la sigla: era quella di “Posebne Jedinice Policije”, l’Unità Speciale di Polizia serba che in Kosovo effettuava attività antiterroristica.

Non c’erano dubbi. Il cadavere che giaceva sul fondo della buca apparteneva ad uno dei loro agenti.

I miei pensieri furono interrotti dalle parole dell’uomo, che anche stavolta sentii materializzarsi nella mia mente come se provenissero dal profondo di me stesso: “Ecco. Ora ho di nuovo la mia giubba. Ora posso andare.

Ma quella giubba… non apparteneva al militare che giaceva sul fondo della buca? Non ci capivo più nulla.

Guardai l’uomo, che era in piedi davanti a me. Per la prima volta dal momento in cui ci eravamo incontrati mi rivolse un accenno di sorriso.

All’improvviso tese le gambe ed unì i talloni, ponendosi inaspettatamente sulla posizione di “Attenti”. Sollevò il braccio destro piegandolo sul gomito e portando la mano con le dita rigidamente unite a toccare la tempia con la punta dell’indice. Mi stava salutando militarmente.

Risposi al saluto eseguendo il medesimo movimento. Confidando che appena esaurito quel momento di formalità, potessimo tornare rapidamente alla strada e metterci finalmente in auto.

Invece, appena ultimato il saluto e fatta ricadere la mano parallela al fianco, si girò sui tacchi. E si allontanò, procedendo lentamente verso il bosco.

Fluttuando sul terreno, senza calpestarlo.

Scomparve tra gli alberi, dissolvendosi gradualmente nel grigiore di quella strana nebbia. Sinché non ne distinsi più la figura.

Ero rimasto solo, fermo sul ciglio di quel cratere con le spoglie mortali sul fondo. A cui, ora, mancava la giubba.

E finalmente mi fu tutto chiaro.

Rimisi l'arma nella fondina e feci scattare la chiusura della fibbia.

La pistola non mi serviva più.

 

 

FINE


 

Immagine della autentica giubba citata nel racconto.