Questo racconto è atroce.
Perchè parla di guerra, Grande Meretrice e dispensatrice
di dolore, lutti e distruzione.
Una guerra autentica, che è stata combattuta
realmente; e non nella fantasia di chi ne scrive.
Una guerra che probabilmente non è mai ancora
cessata. E che ne ha generate tante altre.
Questo racconto narra di due uomini che si
sono trovati ad esserci dentro, in quella guerra.
Due militari per mestiere, non per vocazione;
che indossavano divise, parlavano lingue, avevano cultura, nutrivano passioni, conducevano
esistenze assolutamente differenti.
Nemici tra loro? Forse. O forse no, chissà.
A proposito, uno di quei due ero io. Ecco
cosa accadde.
Il terzo millennio era iniziato solo da
qualche mese ed io mi ero ritrovato a dovere prestare la mia opera di medico
militare in una guerra ancor più assurda di quanto non lo siano già tutte.
Perchè veniva combattuta contro nemici che spesso abitavano nello stesso
caseggiato, se non sullo stesso pianerottolo. Tra gente che il giorno prima si
scambiava lo zucchero o il sale e il seguente si massacrava a colpi di
Kalashnikov.
Un conflitto in cui c'erano alcuni che
giocavano a calcio usando come pallone le teste mozzate dei nemici. E che tali considerava
anche donne, anziani e bambini.
Ero stato catapultato in un luogo dove l’odio
si consumava già di primo mattino, inzuppato nel caffè corretto con la “rakija”.
Nel cuore dell'Europa, nei Balcani.
Assegnato al Comando NATO di Pristina, impiantato
dopo che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva dichiarato ufficialmente
cessata la Guerra del Kosovo. Il che, evidentemente, non doveva essere stato
recepito proprio da tutti; dal momento che da quelle parti si continuava a
sparare. E a morire.
Quel Comando era stato allestito nel luogo in
cui sorgevano gli stabilimenti cinematografici: praticamente la Cinecittà
jugoslava. Ragion per cui era stato battezzato con una denominazione persino
simpatica e accattivante: “Film City Headquarters”.
Quando si rendeva necessario uscivo dalla base
e mi spostavo in altri territori della regione. Trasferte che, da autentico
incosciente, preferivo effettuare da solo. Senza scorta, né assistenti.
Mi facevo assegnare un fuoristrada con un
minimo di blindatura e, dopo essermi adeguatamente armato ed equipaggiato, mi muovevo
Mai dimenticando di portare con me qualche
bottiglia di vodka e un po’ scatole di biscotti da lasciare in dono ai soldati
russi che presidiavano i check point dislocati lungo quel che restava delle strade
devastate dai bombardamenti. Su cui bisognava guidare stando assai bene attenti
ad evitare di cadere nelle voragini da esplosione, di cui erano dovunque butterate.
Attraversando i villaggi, poi, bisognava
scansare tutto quanto si trovava disseminato sulla carreggiata: macerie di
costruzioni crollate, alberi, pali, tralicci. Stando anche attenti a non
schiacciare sotto le ruote cadaveri; che spesso, purtroppo, non appartenevano solo
ad animali.
La vicenda che vado a narrare accadde proprio
nel corso di uno di quegli spostamenti.
Era metà novembre dell’anno 2000.
Ero in movimento verso la città di Peć (o
Pëje, detto in albanese kosovaro) nel settore occidentale. Dove erano dislocate
le forze italiane.
Avevo lasciato Pristina da una buona mezz’ora
e procedevo con fatica, dovendo stare con il volto praticamente incollato al
parabrezza dal momento che il nevischio, la nebbia e gli schizzi di fango che
sollevavo in continuazione mi impedivano di guardare bene dove stessi andando.
Quel che più mi terrorizzava era l’eventualità
di sbandare e finire fuori strada. Perché, proprio in quella zona del tragitto,
a nemmeno dieci metri dal limite della strada iniziavano i campi minati. Per
cui c’era il rischio reale che ogni dosso, ogni pietra miliare, ogni masso,
ogni cespuglio potesse celare la presenza di un ordigno esplosivo.
Finire dentro una di quelle trappole
significava saltare in aria. Senza alcuna possibilità di scampo. Il che era, per
me, un ottimo motivo per guidare con la massima attenzione e a bassissima
velocità. Lentamente, molto lentamente.
Fu proprio per questo che fui in grado di scansare
quell’uomo.
Me lo ero trovato davanti appena dopo avere
superato una curva.
Appena lo vidi, frenai con decisione e scantonai
con l’auto prima verso il centrostrada; quindi superatolo, mi accostai a
destra. E fermai l’automezzo.
Attraverso lo specchietto retrovisore constatai che era ancora in piedi.
Non lo avevo, dunque, colpito.
Camminava lentamente, barcollando, lungo il
ciglio della strada; trascinando i passi con immane fatica. Dava l’impressione
di essere molto stanco. O ferito.
Decisi di scendere a verificare la situazione.
Estrassi la pistola dalla
fondina e ne feci scorrere il carrello, così da infilare il colpo in canna.
Quindi afferrai lo zaino contenente materiale sanitario di primo soccorso. Ed
uscii dall’auto.
Appena fuori fui sferzato sul volto da una
sciabolata di brezza gelida.
Continuava a nevicare e la nebbia si era
fatta assai fitta. Già a soli dieci metri di distanza non si riusciva a distinguere
nulla.
Tutto
era immerso in un silenzio innaturale, rotto solo dal fruscio del vento e dal
latrare di un cane in lontananza. In quei boschi martoriati nemmeno più gli
uccelli si facevano sentire; da chissà quanto tempo.
Nell'aria
si percepiva un persistente odore di esplosivo e fumo; che entrando dalle narici
scese ad irritarmi la gola, facendomi tossire stizzosamente.
Raggiunsi
lentamente l’uomo, che nel frattempo si era fermato come ad attendere il mio
arrivo.
Man
mano che mi avvicinavo a lui riuscivo a distinguere sempre più nitidamente le
sue fattezze.
Era molto emaciato; di una magrezza
impressionante, resa ancora più evidente dalla sua riguardevole statura.
Il volto era di un pallore livido,
cadaverico.
Gli occhi, semichiusi da palpebre
sottilissime, lasciavano intravedere sottostanti opache sclere cerulee. Circondati,
com’erano, da una sorta di cerchio plumbeo, apparivano infossati rispetto alla
restante cute del viso.
Il naso, affusolato e appuntito, sporgeva tra guance così tanto incavate da rendere gli zigomi innaturalmente prominenti.
La bocca era ridotta ad una stratta fessura
circoscritta tra due sottilissime labbra screpolate e fissurate da ragadi
secche e profonde.
La barba manifestamente ispida e
trascurata.
Tutto, delle fattezze spettrali di
quell’uomo, indicava che stesse vivendo un profondo stato di sofferenza.
Per quanto nessuna emozione trasparisse da
quel volto. Nessuna.
Teneva lo sguardo fisso nel vuoto dinanzi a
sé, con espressione spenta e amimica. E continuava a dondolare ripetutamente il
tronco avanti ed indietro, con movimenti a scatti. Sembrava una marionetta a
cui fossero stati spezzati i fili.
L'impressione che ne riportai, pertanto, fu
che non solo fosse fisicamente stanchissimo e sofferente, ma anche
psicologicamente molto provato.
Quell’uomo aveva assoluta necessità di un
sostegno sanitario. Chiunque fosse. A qualunque delle fazioni in guerra
appartenesse. Che fosse a noi ostile o alleato.
Solo quando giunsi ad un paio di metri da lui
diresse lo sguardo verso di me.
Mi guardò, quindi abbassò di scatto il capo e
concentrò la sua attenzione verso qualcosa che stringeva nelle mani.
Quel movimento così repentino mi spaventò. Per
un attimo temetti che avesse una bomba che avrebbe potuto lanciarmi contro; o
con cui avrebbe potuto farsi saltare in aria, coinvolgendomi nell’esplosione.
Perciò sollevai la pistola e gliela puntai
contro, intimandogli urlando di non fare nessun movimento.
Dischiuse lentamente le mani, le sollevò e le
rivolse verso di me, come a porgermi qualcosa.
Tirai un sospiro di sollievo. Tra le dita
aveva soltanto dei fogli di carta. E nient'altro.
Voleva che li prendessi, per cui con la mano
libera dall’arma li afferrai.
Non erano documenti, ma due fotografie
sporche e stropicciate con i volti di una donna e di due bambini. La sua
famiglia.
In una c’era anche lui, in uniforme. Era
dunque un militare.
Lo osservai meglio. E ne ebbi conferma.
Indossava una maglia grigio verde, lisa e strappata
in più punti. Alla vita calzava un cinturone in canapa che teneva sollevati dei
pantaloni chiazzati, sporchi di terra e di qualcos’altro che sembrava sangue
rappreso.
Ai piedi calzava stivaletti anfibi.
Ora che ero abbastanza vicino da poterli
annusare, mi resi conto che i suoi vestiti emanavano un inconfondibile sentore
di polvere da sparo e kerosene bruciato. Un odore che conoscevo bene.
Dal quel che indossava nella fotografia e da
quel che gli restava indosso dedussi che era di nazionalità serba. Il che
rendeva assolutamente necessario che lo prendessi immediatamente in custodia, se
volevo salvargli la vita.
Infatti, la zona in cui stavamo era
controllata dai guerriglieri del sedicente Esercito di Liberazione del Kosovo,
meglio noto con la sigla UÇK: la sanguinaria milizia paramilitare che già due
anni prima era stata inserita dalle Nazioni Unite nella lista nera delle organizzazioni
terroristiche.
Se fossimo stati intercettati proprio da
quella, il serbo sarebbe stato immediatamente passato per le armi. Ad andargli
di lusso.
Quanto a me, non credo che l’appartenere alla
NATO li avrebbe fatti desistere dall’usarmi il medesimo trattamento. Anche
perché sarei stato comunque un testimone assai scomodo.
Ragion per cui dovevamo scappare via da quel
posto. Prima possibile.
Decisi che sarei tornato indietro, a Pristina.
Portando quell’uomo con me.
Lì sarebbe stato al sicuro. E avrei anche
potuto curarlo.
Era l’unica cosa che potessi fare.
Mi rivolsi a lui con una delle poche frasi in
serbo che conoscevo: “Dobro jutro”.
Cioè “Buongiorno”.
Mi rispose, con mia grande sorpresa, in
perfetto italiano: “Buongiorno”.
Rimasi sconcertato
dall’avere avuto l’assurda impressione che le
sue labbra non si fossero mosse. Come se il suo saluto, che avevo percepito
distintamente, mi fosse arrivato direttamente in mente senza passare dalle mie
orecchie.
Ma che diavolo andavo a pensare… La tensione nervosa
che stavo macinando in quel momento mi stava sicuramente giocando un brutto
scherzo.
Ripresi a parlargli. Questa volta in
italiano, dal momento che sembrava conoscerlo bene.
“Come si sente ? Ha bisogno di essere
medicato ?”
Non mi rispose.
Restò in silenzio a scrutarmi, senza profferire
parola. Fisso come una statua.
Per cui aggiunsi:
“Ascolti…
Siamo in pericolo. Comprende, vero ? Salga
con me in auto. La porto al Comando NATO di Pristina, al sicuro. Ma facciamo in
fretta, la prego.”
Continuò a tacere, senza mutare per nulla la
sua espressione.
Per cui aggiunsi:
“È per la sua
sicurezza che glielo dico. Anzi… di tutti e due. Stia tranquillo: non la sto
considerando un prigioniero di guerra, perché lei non ha avuto un comportamento
ostile nei miei confronti. Ma dobbiamo andare via velocemente da qui. In
fretta. Ha capito o no quello che le sto dicendo ?”
Niente da fare. Continuava a fissarmi attonito,
senza rispondere. Né muoversi di un millimetro.
Avevo la netta sensazione che avesse compreso
perfettamente tutto quanto avevo detto; ma, non so come dire, era come se non
gliene interessasse assolutamente nulla.
La mia ansia aumentava ogni attimo che
passava; perché ogni millesimo di secondo che restavamo lì aumentava le probabilità
che venissimo scoperti.
Non sapevo nemmeno che cosa fare. Andarmene senza
di lui avrebbe significato condannarlo a morte. Restare lì, pure.
Fortunatamente, ad un tratto, si decise a
rispondermi.
E anche questa volta sembrò che lo facesse senza
aprire bocca.
Le sue parole furono: “Devo prima recuperare la mia giubba. Solo dopo… io potrò andare dove
devo andare.”
Restai costernato: che diamine significava ?
Ma non dette il tempo di riflettere.
Repentinamente si voltò e si incamminò verso la boscaglia.
Sudai freddo. Quanto tempo avremmo perso per
trovare la sua dannata giubba?
Sussurrando (giusto perché non potevo farlo
urlando) gli lanciai dietro tutte le peggiori imprecazioni mi venissero in
mente in quel momento: in dialetto barese, in italiano e pure in serbo.
E per un attimo ebbi anche la tentazione di
abbandonarlo al suo destino, considerato che era pure sparito dentro il muro di
nebbia.
Ma avrei mai potuto condannarlo a morte certa?
Proprio io ?
Per cui gli andai dietro.
Con apprensione e circospezione; ma
soprattutto con l’arma puntata. Pronto a tutto.
Perché in quel bosco avrei potuto davvero trovare
di tutto e incontrare chiunque.
Lo raggiunsi presto, anche perché procedeva
molto lentamente.
Lo faceva senza fare il benché minimo rumore,
pur calpestando un tappeto di foglie secche e di ramoscelli umidi. Al contrario
di me, che invece li facevo crepitare ad ogni passo. Ma come diavolo ci riusciva?
Che razza di addestramento alla guerra nei boschi aveva mai fatto? Sembrava
levitasse, invece che camminare.
Ad un certo punto si arrestò sul ciglio di
una enorme buca aperta nel terreno.
Una di quelle che si formano quando esplode
un colpo d’artiglieria. O una mina.
Si era messo a fissare qualcosa che si
trovava sul fondo di quella voragine.
Quando lo affiancai guardai anch’io di sotto.
C’era il corpo di un uomo. Dilaniato.
Dai cui poveri resti semicarbonizzati si
sollevava ancora un esile filo di fumo.
Qualcuno era saltato in aria proprio lì, non troppo tempo prima.
Quel che ne restava era disteso sopra una larga
pozzanghera brunastra di sangue coagulato, avvolto in quel che sembrava una
giubba. Lacera, informe, intrisa di terra e chissà cos’altro; ma ancora
riconoscibile come tale: una giubba.
L’uomo saltò all’interno della fossa.
Si chinò su quelle povere spoglie e ne sfilò quel
capo di vestiario, con cui risalì Appena fu riemerso con il dorso della mano
pulì accuratamente dal terreno uno stemma in stoffa cucito poco sotto una delle
due spalline. Quando terminò, lo portò alle labbra e lo baciò.
Quindi indossò la giubba, facendola aderire
al proprio corpo e introducendo, nelle asole oscenamente slabbrate quel paio di
bottoni che ne erano rimasti attaccati.
Incuriosito mi sporsi verso di lui per vedere
da vicino lo stemma verso il quale aveva manifestato quel trasporto quasi
religioso.
Per quanto fosse quasi completamente strappato, riconobbi le tre lettere
ricamate in cirillico: П - Ј - П. Che in alfabeto occidentale corrispondevano a P - J - P. Riconobbi
la sigla: era quella di “Posebne Jedinice
Policije”, l’Unità Speciale di Polizia serba che in Kosovo effettuava attività
antiterroristica.
Non c’erano dubbi. Il cadavere che giaceva
sul fondo della buca apparteneva ad uno dei loro agenti.
I miei pensieri furono interrotti dalle
parole dell’uomo, che anche stavolta sentii materializzarsi nella mia mente
come se provenissero dal profondo di me stesso: “Ecco. Ora ho di nuovo la mia giubba. Ora posso andare.”
Ma quella giubba… non apparteneva al militare
che giaceva sul fondo della buca? Non ci capivo più nulla.
Guardai l’uomo, che era in piedi davanti a
me. Per la prima volta dal momento in cui ci eravamo incontrati mi rivolse un
accenno di sorriso.
All’improvviso tese le gambe ed unì i
talloni, ponendosi inaspettatamente sulla posizione di “Attenti”. Sollevò il
braccio destro piegandolo sul gomito e portando la mano con le dita
rigidamente unite a toccare la tempia con la punta dell’indice. Mi stava
salutando militarmente.
Risposi al saluto eseguendo il medesimo movimento. Confidando che appena
esaurito quel momento di formalità, potessimo tornare rapidamente alla strada e
metterci finalmente in auto.
Invece, appena ultimato il saluto e fatta ricadere la mano parallela al
fianco, si girò sui tacchi. E
si allontanò, procedendo lentamente verso il bosco.
Fluttuando sul terreno, senza calpestarlo.
Scomparve tra gli alberi, dissolvendosi
gradualmente nel grigiore di quella strana nebbia. Sinché non ne distinsi più
la figura.
Ero rimasto solo, fermo sul ciglio di quel
cratere con le spoglie mortali sul fondo. A cui, ora, mancava la giubba.
E finalmente mi fu tutto chiaro.
Rimisi l'arma nella fondina e feci scattare
la chiusura della fibbia.
La pistola non mi serviva più.
FINE